Il perdono responsabile

Di Camilla Cupelli

“Si può educare al bene attraverso il male?” Con questa domanda, solo apparentemente filosofica, Gherardo Colombo sottotitola il suo nuovo libro “Il perdono responsabile”. E con la stessa domanda apre il suo incontro al Salone Internazionale del Libro di Torino.

L’ex pm milanese, però, chiarisce subito: con questa domanda intende chiedersi, e chiederci, se possano esistere diverse forme di punizione e riabilitazione rispetto a quelle tradizionali e, in particolare, rispetto al carcere. Partendo dal presupposto che la Costituzione sia rappresentata dall’articolo 3, il cui incipit recita “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge”, Colombo si interroga sul possibile disaccordo tra l’esistenza delle carceri e tale principio costituzionale, dubbio che lo accompagna quotidianamente nella sua carriera e che cresce sempre più nel corso degli anni.  Generalmente si difende l’esistenza delle carceri con una motivazione forte: il carcere favorisce la sicurezza dei cittadini mediante la reclusione di individui pericolosi. Gherardo Colombo racconta però dei dati allarmanti: il 68% di coloro che escono dal carcere sono recidivi, commettono altri reati. La nostra sicurezza, dunque, pare tutt’altro che sotto controllo in base alle normative vigenti.

La domanda di fondo è: “somministrando condanne si esercita realmente giustizia?”. L’ex magistrato lancia una provocazione e chiede che tutti i giudici che si troveranno ad emettere sentenze di condanna al carcere passino prima due giorni con i detenuti per rendersi conto della situazione disastrosa in cui si vive nelle carceri italiane. E fa una prova con il pubblico: “provate soltanto ad immaginare di vivere in una stanza di dodici metri quadrati con vostra moglie per quarantotto ore. Ecco, in quella stanza i detenuti stanno per anni in sei o sette, senza essersi scelti”. La prospettiva, effettivamente, sembra tremenda. E, quel che più conta, sembra non tener conto affatto della dignità delle persone.

Gherardo Colombo prova a fornire una spiegazione di questo processo malato, e lo fa ripartendo dalla frase iniziale: il problema è che i carcerati vivono in condizioni pessime e quando escono sono considerati reietti. E ciò avviene perché crediamo sia bene applicare il male, e speriamo, con questo, di ottenere del bene. L’idea della nostra società è educare all’obbedienza, ma con questo non educhiamo né alla responsabilità, né alla libertà. I vecchi neuroni specchio ci insegnano da tempo la pedagogia del male: se vedo commettere del male, reagirò sempre e soltanto con altrettanto male.