Tradurre il presente nell’epoca della post-verità

Rubrica del Comitato Scientifico della Fondazione

di Alberta Giorgi

In tutta Italia, il 20 aprile si sono tenuti presidi e manifestazioni per la liberazione del giornalista, blogger, documentarista Gabriele Del Grande, co-regista di “Io sto con la Sposa”.

Il mestiere del reporter

Il mestiere del reporter, e non da oggi, è un mestiere pericoloso. Recentemente, un quotidiano in Messico ha chiuso per i troppi giornalisti uccisi. In Italia, il giornalista di Repubblica Paolo Berizzi ha ricevuto minacce per le sue inchieste sulla galassia neonazista, per non parlare dei giornalisti che si occupano di mafia.

E Del Grande, appunto, è in Turchia: “bloccato”, “trattenuto”, “detenuto”, “in stato di fermo”, “si trova in un carcere”, come variamente definiscono la sua situazione giornalisti e quotidiani. Mancano le parole per descrivere esattamente cosa stia succedendo. Mancano perché la vicenda non è chiara. Mancano, anche, perché è difficile tradurre meccanismi e procedure di un altro Stato (in cui, per di più, vige lo stato di emergenza). Al massimo, si può procedere per approssimazione, per approssimazioni successive, cercando di tradurre la realtà delle cose in un linguaggio comprensibile.

Nelle “Lezioni Americane”, parlando del rapporto tra parole e realtà, Calvino spiega come le sue “pulsioni verso l’esattezza” non potranno mai essere soddisfatte, perché: “le lingue naturali dicono sempre qualcosa in più rispetto ai linguaggi formalizzati, comportano sempre una certa quantità di rumore che disturba l’essenzialità dell’informazione […] nel render conto della densità e continuità del mondo che ci circonda il linguaggio si rivela lacunoso, frammentario, dice sempre qualcosa in meno rispetto alla totalità dell’esperibile” (ed. Mondadori 1993, p. 74).

Verità e Post-Verità

Il fumettista Makkox racconta la vicenda di Del Grande così, sottolineando come il problema sia il raccontare i fatti, il raccontare la verità nell’epoca della post-verità – un’epoca in cui, cioè, i “fatti sono meno influenti nell’orientare la pubblica opinione che gli appelli all’emotività e le convinzioni personali”, come spiegano gli Oxford Dictionaries, che hanno eletto post-verità la parola dell’anno 2016. Nell’orientare le decisioni, i fatti contano meno dell’emotività. Gli abitanti delle società contemporanee sono consapevoli della diffusione selettiva dell’informazione, di quanto la realtà sia una costruzione sociale, di come l’oggettività della narrazione non esista. La mera scelta di quali fatti raccontare, per dire cosa, a chi, la selezione degli elementi rilevanti nella “totalità dell’esperibile” esprimono un punto di vista, un orientamento. E del resto, come attori sociali siamo nell’impossibilità logica di porci “al di fuori” della narrazione. In questo senso, non esiste una “Verità” assoluta. Esistono verità, al plurale, e meno ambiziose: locali, provvisorie, di compromesso, soggette ad una serie di condizioni. Una delle condizioni principali riguarda la fiducia che accordiamo al narratore, a chi racconta la realtà, a chi la traduce, la credibilità riconosciuta alle diverse fonti di conoscenza sulla realtà. Un’altra condizione piuttosto importante, almeno per quanto riguarda la narrazione della realtà (non trattiamo qui il più complesso capitolo dello statuto dei saperi esperti), è la pluralità delle fonti di informazione – e, quindi, di orientamenti – che possono restituire la complessità del reale, senza appiattirlo su una narrazione univoca. Per questo, il controllo dell’informazione è uno dei primi punti sulla lista di ogni aspirante dittatore.

Controllare l’informazione non ha a che fare solo con i fatti, occultati o resi visibili, ma anche, appunto, con le parole usate nel fare informazione. Il “rumore” di cui Calvino parla, che disturba l’essenzialità dell’informazione, riguarda il fatto che le parole, in ogni specifico contesto in cui sono utilizzate, portano con sé emozioni, associazioni di idee, orientamenti – e contribuiscono a costruire gli occhiali attraverso cui guardiamo quel che ci circonda. Utilizzare, per esempio, la parola “clandestino” oppure “turista” rimanda a campi semantici decisamente diversi, a letture della realtà divergenti. I militari nazisti usavano il termine ‘Banditen’ per indicare quelli che noi rivendichiamo come ‘Partigiani’. Gli oppositori di un regime diventano terroristi, quelli che qui si definiscono terroristi, per altri sono martiri. Di recente, la Disney ha dovuto cambiare il titolo di un suo film per distribuirlo in Italia – da Moana a Oceania. Il bellissimo Dictionary of Obscure Sorrow è un dizionario che inventa parole nuove per descrivere emozioni e sensazioni per cui le vecchie parole sembrano inadeguate.

Oltre al controllo dell’informazione, in effetti, sulla lista dell’aspirante dittatore si trova anche una grande attenzione alle parole utilizzate per descrivere la realtà. E’ nota, a questo proposito, la neo-lingua immaginata da Orwell nel romanzo distopico 1984, una lingua artificiale che fornisce nuovi mezzi espressivi, contemporaneamente rendendo impossibile l’espressione di pensieri non conformi, in assenza delle parole necessarie per esprimerli. In questo senso, il controllo sulla realtà passa attraverso il controllo sulle forme per la sua espressione, e l’eliminazione di ogni forma di ambiguità, di rumore. E, quindi, di qualsiasi forma di cambiamento.

Geringonça – sopravvivere alla post-verità

Geringonça, in portoghese, indica una cosa mal costruita, dalle fondamenta poco solide e – anche – un linguaggio incomprensibile. E’ così che nel 2015 un ex columnist di un importante quotidiano portoghese definì l’esperimento di governo che riuniva tutte le numerose anime della sinistra (che in Portogallo include leninisti, animalisti, socialisti, per citarne solo alcuni). Eppure, il governo di Antonio Costa è ancora in piedi – e funziona bene: i suoi sostenitori si sono allegramente riappropriati della parola, rivendicando il successo di un’esperienza su cui pochi avrebbero scommesso. Aggiungendo un nuovo significato, aprendo altre possibilità di realtà.

La geringonça, allora, sembra offrire una buona strada: invece di cercare univocità, esattezza, Verità, provare ad accettare le ambivalenze, cambiare i significati, esplorare la generatività degli interstizi. Invece di rivendicare, soltanto, la neutralità, provare ad avere un punto di vista e a raccontarlo. Come Del Grande, appunto. E tutti i giornalisti “bloccati”, “trattenuti”, “detenuti” in diverse parti del mondo.