Ho partecipato alla formazione della Scuola Gea: ecco com’è andata
Una settantina di attivisti si ritrovano a metà settembre in un piccolo campeggio a Trevignano Romano.
Nel provare a riassumere questa esperienza mi sono accorto che lasciando il mistero su cosa sia successo, questa frase assume una certa potenza, a tratti addirittura inquietante. È proprio da qui che voglio partire, perché nel parlare dei contenuti della formazione si rischia di dare per scontata la potenza “mistica” dell’incontro in sé, perché la Scuola Gea (Giustizia Ecologica e Ambientale), prima di essere una tre giorni di formazione è appunto una scuola, ovvero uno spazio che è prima di incontro e convivenza e che solo dopo è didattico.
Formalmente la scuola inizia venerdì alle 9, ma in realtà la formazione per me comincia già con le iscrizioni, perché il primo stimolo di riflessione è la quota gratuita, scelta che abbatte quelle disuguaglianze economiche che non avrebbero permesso di partecipare a chi vi scrive; poi continua una settimana prima del viaggio, quando ci arriva una ingente quantità di materiali preparatori, che creano un terreno di conoscenza condiviso su cui costruire le nostre riflessioni. Ultimo momento di “riscaldamento” è la sera di giovedì, nella quale arrivano al campeggio già la metà degli attivisti: nel mio timido approccio al gruppo faccio due scoperte che mi colpiscono e che torneranno nel corso della formazione: la diversità delle provenienze e delle forme di attivismo. All’ennesima conoscenza di un attivista del Sud mi rendo conto con vergogna del mio pregiudizio nordista nell’aspettativa di incontrare più persone del settentrione; mentre il secondo elemento di sorpresa era vedere tutti insieme attivisti climatici, membri di giovanili di partito, giovani assessori, militanti delle associazioni più disparate. Come dicevo questi due aspetti non sono di contorno, perché la scuola Gea ci insegna che alla base del processo di sistematizzazione delle conoscenze e delle conquiste concettuali, obiettivo fondamentale della formazione, sono cruciali la decolonialità e la diversità. Infatti, per combattere l’inedita triplice azione del collasso climatico, delle guerre e dell’aumento delle disuguaglianze è necessario formare attivisti in grado di affrontare queste crisi attraverso una visione sistemica che sia antidoto alle forme di attivismo inconsapevole e quindi velleitario.
Sugli incontri di formazione della Scuola Gea
I ritmi serrati e l’intensità degli incontri non mi permettono di soffermarmi, come varrebbe la pena fare, su ciascuno di questi se non ricorrendo a un riassunto estremamente ampio, quindi per amor di sintesi sono costretto non solo a molte omissioni (i miei appunti gridano vendetta), ma anche a mettere in rilievo la mia sensibilità, dato che al posto di una didascalica e oggettiva cronaca mi conviene riassumere a partire dai tre stimoli che più mi sono rimasti impressi.
Decolonizzare il nostro pensiero, il nostro linguaggio e le nostre pratiche
Nella prima nottata, entrando in tenda tutti i miei pensieri si addensavano intorno a questo tema, grazie all’eco delle parole di Giuseppe De Marzo e Tomaso Montanari: il primo, dopo una confutazione del modello di sviluppo della crescita infinita, ci espone a una carrellata di pratiche e concetti rivoluzionari provenienti in gran parte dal Sud del mondo che mostrano l’inconsistenza del nostro eurocentrismo; il secondo conduce una lucida riflessione sul concetto di patria: termine un tempo associato alla liberazione, ma che è diventato al contrario sempre più simbolo del nostro colonialismo.
Su questo tema fonte feconda di stimoli è stato anche il gruppo di riflessione, incentrato sul cambiamento che personalmente cerchiamo nel pensiero, nel linguaggio e nell’azione (mostrando tra l’altro i confini sfumati tra queste sfere).
Le domande che mi rimangono sono diverse: quanto spazio dedichiamo alla cura del nostro vocabolario collettivo? Ovvero quanto rimettiamo in discussione i termini che utilizziamo o quanto finiamo con l’accettare loro acriticamente? Perché il secondo caso cela il pericoloso fantasma della retorica, che allontana le nostre riflessioni dal nostro profondo sentire.
L’attivismo in prima linea di Maxima Acuna
Non ho ancora menzionato che tra gli attivisti e i formatori in questo campeggio si aggira una gigante della storia: Maxima Acuna. Se non apro una voragine in questo riassunto per raccontare in maniera dignitosa la storia di Maxima, lo faccio non solo per urgenza di sintesi, ma anche per sottolineare che grazie all’iniziativa della scuola Gea, che ha portato qui Maxima e si è impegnata a costruire legami che potessero contribuire alla sua causa (si pensi all’impegno preso da Alleanza Verdi e Sinistra di coprire le spese processuali e di avviare un percorso di cooperazione istituzionale), ora vi è molto facile trovare interviste e articoli su di lei in italiano. Intanto vi basti sapere che si tratta di una donna che da sola con la famiglia in una zona rurale peruviana sta resistendo all’assalto di due multinazionali minerarie che vogliono sfrattarla. Maxima è una delle tante attiviste climatiche che non hanno scelto di esserlo, ma che hanno toccato con mano le ingiustizie che questo sistema perpetra, trovandosi nel mezzo della battaglia a essere una di quei difensori della madre terra tanto pericolosi per il sistema che se ne uccide uno ogni due giorni. I momenti dedicati a Maxima e al figlio Daniel sono stati ben tre: il suo racconto il primo giorno; un momento di domande e la visione di alcuni video e documentari sulla sua battaglia il secondo giorno.
La sera di venerdì, in un dibattito sulla gestione dell’imminente giubileo da parte della città di Roma, abbiamo incontrato altre due forme di attivismo in prima linea: la Rete Tutela Roma Sud e il Comitato Tavoli del Porto, impegnati rispettivamente nella battaglia contro la costruzione dell’inceneritore e del porto per grandi navi a Fiumicino, opere che potrebbero devastare il contesto ambientale in cui si trovano. Chi si lancia in queste battaglie va supportato sotto tutti i punti di vista per mille ragioni, ma di queste mi colpiva una in particolare: il successo o il fallimento di queste battaglie si misura su fatti imminenti, o si vince o si perde, non c’è spazio per interpretazioni fantasiose.
Questo mi fa pensare a quanto sarebbe bello operare totalmente in funzione della costruzione di un futuro diverso, ma questo presente ci impone delle sfide troppo urgenti, che se perse metterebbero a rischio ogni immagine di futuro alternativo. Anche qui diverse le domande: quali sono le sfide imminenti nel territorio che viviamo? Che strategie ci diamo per non essere spettatori di queste sfide? Sempre se pensiamo di poter giocare un ruolo in questo conflitto sul presente o se invece sarebbe più saggio delegarlo ad altri per poterci concentrare sul lavoro culturale (che è tanto e necessario).
Rapporto tra attivismo e istituzioni
Nella ricchezza degli stimoli, la formazione sarebbe stata incompleta se non si fosse parlato in maniera esplicita di istituzioni democratiche, come ha fatto sabato nel secondo incontro pomeridiano Monica Di Sisto che, nonostante un’analisi impietosa della realtà, sottolinea le potenzialità delle istituzioni nel contrastare le degenerazioni di questo sistema, a patto che vengano giustamente presiedute sia all’interno che all’esterno. Messaggio di speranza che non scade in banale ottimismo dato che trova credibilità nelle tante vittorie ottenute in oltre vent’anni di attivismo. Questo tema mi sembrava particolarmente stimolante anche per altri attivisti dato che ricordo più di una passeggiata in cui è emerso come tema, in tutti i casi si è usciti con più domande che risposte. Personalmente ripensando al nostro movimento, prima ancora di immaginare un tipo di rapporto con le istituzioni mi chiedo che cosa porteremmo noi in questo dialogo: quali sono, se ci sono, i disagi che viviamo sulla nostra pelle e su cui sentiamo l’urgenza di avere risposte? E poi, una volta individuati, quanto conosciamo le facoltà e i limiti delle diverse istituzioni nelle possibili risposte? Quanto siamo informati sulle scelte che attualmente vengono prese nei luoghi di potere e delle loro potenziali conseguenze?
Dopo uno spazio per le nostre considerazioni finali, con una chiusura dei coordinatori della scuola in cui sono arrivate anche delle proposte concrete per non rendere necessariamente il nostro saluto un addio, si sistemano le borse e si lascia spazio agli abbracci finali. Nello smontare la tenda sento un enorme entusiasmo per le persone conosciute, prima ancora che per il sapere acquisito; poi un certo sollievo per essere arrivato alla fine di un’esperienza molto intensa; ma soprattutto la spasmodica agitazione di chi ha l’impressione di aver trovato qualcosa di nuovo, di materiale intellettuale che possa trasformarsi in cambiamento concreto.
Sulla base di queste emozioni ripenso al titolo del festival “Relazioni Inseparabili” e penso che sia efficace non solo nel mostrare l’interdipendenza tra ogni entità vivente e quindi la propria fragilità (che poi è forse il nucleo della potenza del valore comunitario), ma anche per rimarcare la possibilità di costruire relazioni inseparabili che da un lato rispondano alla necessità di costruire una forza in grado di resistere agli affronti antidemocratici (si pensi all’autonomia differenziata e al ddl sicurezza) che questo sistema di sviluppo favorisce e dall’altro siano portatrici di quella bellezza di stare insieme di cui non smetteremo mai di aver bisogno.
Perdonate questa lunga digressione, riprendo la frase riassuntiva iniziale che avevo interrotto e la completo: una settantina di attivisti si ritrovano a metà settembre in un piccolo campeggio a Trevignano Romano per intraprendere insieme un cammino verso l’orizzonte di un mondo alternativo da raggiungere attraverso una nuova strada di attivismo. Il sentiero si sta tracciando!
Khaled Gueddim