Un articolo di Mario Monti sulla situazione economica italiana.

A lungo esorcizzata, la crisi dell’Eurozona ha finito per bussare, con una certa brutalità, anche alla porta dell’Italia.

A differenza della Grecia, da diversi anni l’Italia è riuscita a mettere il disavanzo pubblico sotto controllo.

Il rigore nei conti pubblici è stata una condizione essenziale per la sostenibilità e la graduale riduzione dell’alto rapporto tra il debito pubblico e il prodotto interno lordo. A differenza dell’Irlanda, l’Italia ha visto le sue banche colpite solo moderatamente dalla crisi, il che ha evitato grossi oneri per salvataggi a carico del bilancio pubblico. A differenza della Spagna, dove la fine del boom edilizio ha causato una profonda recessione e dissesti finanziari, l’Italia non si era caratterizzata per un eccesso di espansione né nelle costruzioni né nell’indebitamento del settore privato.

Ma allora perché l’Italia, nelle ultime settimane, è stata colpita da improvvisa sfiducia, espressa con parole dalle agenzie di rating e con fatti dai mercati, in una pericolosa interazione tra i due? La risposta si trova, ritengo, nella combinazione di due fattori. Il primo è la tendenza ad andare alle calende greche, anche se questa si è manifestata, stranamente, più a Bruxelles che ad Atene. Il secondo fattore è stato un certo revival della commedia all’italiana, naturalmente a Roma.
Sarebbe ingiusto negare che la risposta dell’Unione Europea alla crisi greca sia stata vigorosa e abbastanza coordinata. Ma la cacofonia delle dichiarazioni dei leader dei principali Stati membri, dell’Eurogruppo e della Banca centrale europea, e la difficoltà di trovare un rapido accordo sulla strategia per risolvere la crisi accrescono nei mercati la voglia di mettere a prova su nuovi fronti la capacità di reazione dell’Ue.

Il nuovo fronte avrebbe potuto essere la Spagna. I problemi che essa presenta non sono certo inferiori a quelli dell’Italia. Se per ora il target è stato l’Italia – un target che, per dimensione e anzianità di appartenenza all’Ue, rappresenta un test più severo sulla capacità di resistenza del nucleo centrale dell’eurozona – lo si deve probabilmente alle crescenti fibrillazioni nella maggioranza che fa capo al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.

Per quanto spiacevoli e forse non pienamente giustificate dai fondamentali, le recenti prese di posizione delle agenzie di rating e dei mercati contro l’Italia hanno destato un immediato senso di urgenza, che ricorda certe crisi degli anni precedenti all’introduzione dell’euro. Ispirata e promossa dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, la reazione è stata pronta e ispirata ad una coesione che non si vedeva da tempo. Dato che la «manovra» del ministro dell’Economia e delle Finanze Giulio Tremonti, pur criticata sotto altri profili, è dai più considerata necessaria per rassicurare l’Unione Europea e i mercati, i partiti di opposizione si sono impegnati a non ritardare la discussione parlamentare in modo che l’approvazione possa intervenire già domani, a velocità record anche sul piano internazionale. A sua volta, la maggioranza dovrebbe accettare alcuni emendamenti proposti dalle opposizioni.

È un peccato che ci sia voluto un «forte attacco» da parte di «una cospirazione di speculatori» – così ritengono molti italiani – perché il sistema politico avesse un soprassalto di consapevolezza dell’interesse generale e di senso di responsabilità comune. Ma certo si può dire che la reazione di cui ha dato prova l’Italia è stata davvero notevole. Tanto più in un Paese nel quale pochi avrebbero scommesso di vedere una reazione così mentre molti hanno in effetti «scommesso», muovendo i loro fondi contro l’Italia, che questa reazione non ci sarebbe stata.

Porrà questo fine alle pene dell’Italia? Certamente no, anche nel casi in cui la speculazione dovesse mostrarsi meno massiccia per qualche tempo. È necessario un riorientamento fondamentale della politica economica dell’Italia.

È essenziale insistere sulla linea della disciplina fiscale, che il ministro Tremonti sta perseguendo con determinazione e se mai assicurarsi che essa venga rafforzata nell’esecuzione. Ma è altrettanto essenziale abbandonare la politica, e perfino la filosofia, seguita dal ministro Tremonti nei tre governi Berlusconi a su un’altra questione decisiva: che è di importanza vitale per l’Italia far aumentare la produttività complessiva dei fattori produttivi, la competitività e la crescita; e ridurre le disuguaglianze sociali.

Ciò deve essere conseguito, ovviamente, non allentando la disciplina di bilancio – come esponenti autorevoli del governo e della maggioranza chiedono con insistenza al ministro Tremonti – ma rimuovendo gli ostacoli strutturali alla crescita. Essi sono numerosi e ben radicati in molti settori. Una cosa hanno in comune: derivano dal corporativismo e da insufficiente concorrenza. Questo è dovuto in parte al fatto che l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, e altre autorità di regolazione, non hanno sufficienti poteri, indipendenza effettiva e risorse; in parte ad una fitta selva di restrizioni alla concorrenza introdotte negli anni da provvedimenti legislativi e amministrativi.

Tale strategia per la crescita – simile del resto a quella necessaria a livello dell’Ue, cioè non allentamento della disciplina di bilancio ma iniziative ambiziose per rendere l’economia europea più competitiva attraverso una maggiore integrazione dei mercati, compresi investimenti nelle interconnessioni per realizzare davvero il mercato unico – non è vista con favore dalle culture politiche tradizionali in Italia, di destra e di sinistra. Ma questa è la prossima grande sfida per l’Italia, come mette in luce anche la Commissione Europea nelle sue recenti raccomandazioni. Dopo tutto, perfino le agenzie di rating, che di solito privilegiano gli aspetti finanziari e di breve periodo, nei loro giudizi preoccupati sull’Italia hanno per la prima volta dato grande peso alla mancanza di adeguate politiche per la crescita, dato che questa è, tra l’altro, essenziale per rendere sostenibili i miglioramenti conseguiti nella finanza pubblica.

(Fonte: ilcorriere.it)

Questo articolo viene pubblicato anche sul Financial Times