Riscatto Mediterraneo

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Tre domande a Gianluca Solera, autore del libro ‘Riscatto Mediterraneo’

 

Con il suo libro ‘Riscatto Mediterraneo’ Clicca QUI per la scheda) lei parla dei movimenti che hanno messo in crisi il sistema vigente in vari luoghi. Cosa accomuna secondo lei Alexandria, Madrid, Sidi Bouzid e Atene?

 

Quanto è successo in questi ultimi tre anni e mezzo è straordinario. Milioni di persone, soprattutto giovani, hanno conquistato le piazze per chiedere la «caduta del sistema». I movimenti di protesta che sono emersi nei Paesi della regione mediterranea, in virtù di uno straordinario effetto di contagio, hanno molti punti in comune. Pensiamo all’occupazione e alla riappropriazione degli spazi pubblici, alla creazione di strutture civili di assistenza e servizio spontanee, alla diffusa diffidenza nei confronti dei meccanismi della democrazia rappresentativa, alla denuncia della collusione tra classe politica e corporazioni economiche o finanziarie, alla denuncia della corruzione e dell’espropriazione di enti e risorse a vantaggio di pochi, alla richiesta di «pane, libertà e giustizia sociale» (lo slogan che dalla Tunisia ha raggiunto le altre piazze) – che equivale alle nostre categorie di «beni comuni, democrazia e eguaglianza solidale» -alla mobilitazione attraverso la messa in rete, o ancora alla necessità di andare oltre le frontiere, o infine al sentimento di rispetto, al senso di dignità e al rifiuto della divisione tra identità diverse. Il fatto che vi sia stato un effetto di contagio non credo sia casuale, ma sia dovuto alla presenza di un’identità mediterranea, che è una «non-identità» perché è aperta, non-esclusiva, pluri-identitaria, contaminata.

Per la sua storia fatta della sovrapposizione di più civiltà, per i valori comuni che i suoi popoli incarnano (il senso della comunità, ad esempio, o la famiglia, il gusto per le cose belle, il legame con il territorio ed il cibo, la spiritualità, il culto dell’ospitalità, l’inventività e l’operosità, la coesistenza con l’altro), il Mediterraneo è diventato un fulcro della resistenza civile contro capitalismo selvaggio, de-democratizzazione e banalizzazione culturale. Tutto ciò che associeremmo all’idea di Mediterraneo costituisce in un certo senso un naturale antidoto alla globalizzazione mercantilistica e all’individualismo. Le contraddizioni del nostro insostenibile modello di sviluppo hanno trovato una manifestazione di profonda resistenza in questa regione, che è innanzitutto culturale, e che ha rovesciato tutte le nostre rappresentazioni del Mediterraneo come barriera necessaria, la frontiera tra la civiltà e la barbarie, non accorgendosi che la lotta per i diritti è per se universale, ricongiunge e non separa.

Direi di più: il Mediterraneo potrebbe diventare il luogo del prossimo Rinascimento se i vari movimenti e gruppi di riscatto civile nella regione coltivassero un progetto cittadino transnazionale, radicato tra la sua gente. Sto parlando di un movimento transnazionale che contrasti le politiche economiche e finanziarie delle caste del Nord e del Sud e apra la via verso pratiche di sviluppo economico sociale e solidale alternative e di graduale integrazione regionale.

            

Benvenuti in Italia ha mandato una delegazione in Tunisia all’epoca in cui si votò per l’assemblea costituente: a che punto è il processo di democratizzazione del Paese?

 

La Tunisia è il Paese delle rivoluzioni arabe che ha interpretato nel modo più maturo la volontà di libertà e giustizia sociale delle sue popolazioni, senza cadere in tentazioni autoritarie e in rivendicazioni identitarie che porterebbero alla divisione del Paese. In questo senso, l’affermazione di una società civile indipendente ha costituito una garanzia di vigilanza sui fondamenti che hanno ispirato la rivoluzione del 2011. Al 2013, si contavano seimila associazioni registrate in Tunisia dopo la Rivoluzione dei gelsomini! D’altro lato, il dialogo tra forze secolari e religiose ha rappresentato uno dei punti di forza verso la transizione democratica. Lo stesso partito di maggioranza relativa an-Nahdha ha cercato di recuperare la tradizione arabo-islamica del Paese senza però rinunciare al suo sguardo critico verso ogni fondamentalismo, distanziandosi da correnti più radicali. La rappresentazione dell’Islam politico quale blocco rigido è scorretta; il discorso islamofobo dell’Occidente è sovente servito per rompere alleanze pericolose per il sistema neoliberale e cassare possibili dinamiche di resistenza. Per promuovere un’agenda per la democrazia e la giustizia sociale in quei Paesi, le forze democratiche e progressiste dovranno fare i conti con i partiti di tendenza islamica, perché sono una realtà radicata nel panorama politico. Altrimenti succederà quanto è già successo in Egitto, con un fallimento in termini di legittimità post-rivoluzionaria in entrambi i campi. Ritornando a noi, dobbiamo guardare ai fatti, non ai pregiudizi. Guardiamo alla costituzione tunisina approvata quasi all’unanimità, al numero di donne presenti nell’Assemblea costituente (il 44% dei membri di an-Nahdha sono donne, grazie a un meccanismo di candidature a cerniera applicato per legge elettorale) quando noi parliamo ancora di quote-rosa, alle migliaia di profughi libici accolti dalla popolazione tunisina nel 2011 quando noi mandavamo le vedette sul mare di Lampedusa. Il cammino verso la civiltà si deve misurare sui passi che si fanno nella realtà odierna, non su un passato culturale e politico che le nostre generazioni hanno ereditato.

La prossima prova del fuoco per la democrazia tunisina è il rilancio dell’economia. Il grande movimento dei laureati – disoccupati, ad esempio (la disoccupazione tra i diplomati uiversitari è cresciuta del 150% in cinque anni, tra 2005 e 2010), propone di affidare ai giovani diplomati senza lavoro la gestione delle terre rurali pubbliche, per creare un circolo virtuoso che radici la gioventù al proprio territorio.

            

Che ruolo ha giocato Internet in tutti questi processi rivoluzionari? E’ sopravvalutato oppure ha realmente giocato un ruolo fondamentale?

 

Internet, ed in particolare i social media, hanno giocato un grande ruolo. È vero che questa è stata definita la generazione di Facebook, che i due milioni di profili Facebook presenti in Tunisia nel dicembre del 2010 hanno fatto la differenza in termini di mobilizzazione popolare rispetto a rivolte precedenti come quella dei minatori di Gafsa nel 2008. La rivolta del 2008, ad esempio, venne coperta da una rete di bloggers. Con un blog, tuttavia, non hai la stessa visibilità di altri mezzi; devi aprire il blog, alimentarlo con regolarità, e aspettare che i destinatari cerchino i tuoi contenuti. Quando sei su Facebook, invece, puoi postare un articolo o un video e immediatamente il contenuto arriva ai destinatari. L’accessibilità dello strumento tecnologico ha fatto una differenza, come il fatto stesso che con un cellulare si possano ora riprodurre e mandare delle immagini. Sotto il regime tunisino o siriano, YouTube era censurato, così come DailyMotion e altri sistemi di condivisione di immagini, ma questo non ha impedito il fatto che con la società dei consumi, facendo sì che tutti debbano avere telefoni con molte funzioni, tutte queste persone siano diventate dei giornalisti autodidatta, che possono produrre del materiale e circolarlo attraverso Iimedia sociali. Detto questo, però, è anche vero che «diffondere dell’informazione significa anche condividere una coscienza collettiva comune e preparare alla mobilitazione» come mi disse un mediattivista arabo. E questo è valso ad Atene, come al Cairo o a Madrid. Nei mediattivisti, trovo molto dell’insegnamento di Jacques Le Goff, scomparso recentemente, fondatore della scuola storiografica de Les Annales, che ha avuto lo straordinario merito di spostare l’attenzione dai grandi eventi alle strutture, analizzando le relazioni tra società, economia e politica. Con i loro telefonini, correndo da un quartiere all’altro, sovente nella clandestinità, il mondo dei giornalisti cittadini, dei produttori di cultura di strada ha ridato dignità a intere popolazioni sottratte alla Storia dai loro despoti o ridotte alla sudditanza da sistemi economici –finanaziari senza umanità. Il loro ruolo è stato importante quale una delle colonne della mobilitazione popolare, voce delle mille voci che hanno rovesciato la piramide dell’informazione.

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