Registi tunisini

Quattro giovani registi tunisini cercano di ricostruire la storia dei loro conterranei scomparsi in Italia tra il marzo e il maggio del 2011. Un viaggio nel nostro Paese che diventa una scoperta di se stessi e delle vite dei migranti.  L’articolo è stato scritto da un collega free-lance che è attualmente in Libia.

di Andrea de Georgio

Quattro cineasti tunisini. Un tecnico del suono, un operatore, un direttore della fotografia e un regista. Quattro ragazzi fra i 25 e i 28 anni, in viaggio per l’Italia. Non sono clandestini ma si autodefiniscono migranti. Come le centinaia di giovani tunisini che sono scomparsi fra marzo e maggio 2011navigando verso le coste italiane. Li chiamano “dispersi”. Nel senso che non si trovano più. Sono ragazzi come loro, la maggior parte dei quartieri popolari di Tunisi e Sfax. Pur avendo circa la stessa età non ne conoscono nessuno di persona, ma stanno realizzando un lungometraggio sulla loro storiaStoria di uomini in viaggio che scompaiono.

Il progetto del film nasce da un’inchiesta di Najib, 28enne giornalista indipendente che ha lavorato per Radio Kalima, la prima radio libera nata l’indomani della cacciata del dittatore Ben Ali. Ha cominciato la sua ricerca in Tunisia, raccogliendo le storie delle madri e delle famiglie dei dispersi, che da maggio dell’anno scorso stanno organizzando marce di protesta davanti all’ambasciata italiana a Tunisi. Chiedono al nostro governo e alla nuova giunta tunisina delle risposte più convincenti di quelle fornite fino ad ora.

E’ passato più di un anno da quella disgraziata primavera del 2011, quando decine d’imbarcazioni di fortuna lasciarono le coste della Tunisia in direzione Europa. A bordo centinaia di persone, soprattutto giovani protagonisti delle rivolte. Najib e alcuni amici ne hanno raccolto nomi, fotocopie di carte d’identità, fotografie, storie. Poi hanno incontrato un facoltoso produttore tunisino che gli ha finanziato un progetto di docu-fiction per continuare l’inchiesta collettiva in Italia. Il viaggio di scoperta del gruppo di giovani cineasti si sovrappone, così, a quello dei dispersi in un gioco di specchi che potrebbe gettare nuova luce (forse da una nuova angolatura) sul fenomeno della migrazione.

“Cinema harraga”, come lo chiamano loro. “Harraga” è il termine dialettale nordafricano per  “migrante”, dalla radice araba ha-ra-qa che significa “bruciare”, bruciare le frontiere e i documenti. Najib e i suoi amici, però, i documenti ce li hanno. E viaggiano per un mese e mezzo nel Belpaese. Un Eldorado che luccica, sull’altra sponda del Mediterraneo, attraverso le frequenze di Rai 1. Fino a pochi anni fa le antenne tv in Tunisia prendevano solo 3 canali. Due di regime e Rai 1, appunto. “Quando eravamo ragazzini guardavamo sempre Porta a Porta. Aspettavamo i film osé che davano appena finiva, a tarda notte”.

Milano, Roma e la Sicilia fanno da location al loro film-documentario, incontrando clandestini, avvocati, attivisti e associazioni. Come Federica Sossi, docente di filosofia all’Università di Bergamo e attivista del gruppo femminista milanese “Le Venticinqueundici” che insieme all’associazione Pontes cura da ottobre dell’anno scorso la campagna “Da una sponda all’altra: vite che contano” (http://leventicinqueundici.noblogs.org/?page_id=354) in solidarietà alle madri e ai parenti dei dispersi. “Queste madri sono davvero radicali. E’ il primo movimento di parenti – per di più donne! – di migranti che chiedono seriamente conto delle politiche migratorie dell’Unione Europea. Parlano della vita dei loro figli”. Federica ha conosciuto Najib e i suoi amici in Tunisia dove si reca frequentemente da mesi per seguire la vicenda. “Il loro film potrebbe essere un passo verso la nascita di un dibattito sulla realtà del fenomeno migratorio e delle politiche securitarie del governo delle migrazioni. Politiche che trasformano persone in fantasmi”.

I 250 tunisini partiti nella primavera del 2011 (la campagna si concentra sul caso di cinque imbarcazioni totali, partite dalla Tunisia l’1, il 14 e il 29 marzo, più una il 5 maggio 2011 e di cui non si ha mai avuto notizia di naufragio) sono solo la punta dell’iceberg. Migliaia di migranti sono scomparsi in mare negli ultimi anni. Vite che contano. Vite che rimpolpano le statistiche di morte che fanno del Canale di Sicilia una profonda fossa comune. Secondo il sito Fortress Europe «dal 1994 nel solo Canale di Sicilia sono morte almeno 6.226 persone. Più della metà (4.790) sono disperse. Il 2011 è stato l’anno più brutto: tra morti e dispersi, sono scomparse almeno 1.822 persone. Ovvero una media di 150 morti al mese, 5 al giorno: un’ecatombe. E senza tenere conto di tutti i naufragi fantasma, di cui non sapremo mai niente». Numeri che non hanno volti né storie, colati a picco sui fondali del Mediterraneo. Per questo le madri dei dispersi tunisini si ritrovano quasi ogni giorno, da mesi, nelle piazze e nelle strade di Tunisi tenendo strette le foto dei loro ragazzi scomparsi. Ricordano un po’ le Madres de Plaza de Mayo, in Argentina, coi loro figli desaparecidos. Più passa il tempo e sempre meno plausibile appare l’ipotesi che questi migranti siano vivi, dispersi chissà dove nel nostro Paese. Ma il grido delle madri, giunte fino a Roma cinque mesi fa con una piccola delegazione, non si placa: “Vogliamo la verità, solo la verità”.

Najib e i suoi tre amici dopo una settimana a Milano, fra via Padova e i navigli, via Corelli e la Stazione Centrale, gli sportelli-migranti e le mense per i poveri, hanno cominciato a farsi un’idea. Fissando i nuovi grattacieli che spuntano come funghi in zona Garibaldi Najib, che non era mai uscito dal suo Paese prima d’ora, riflette a voce alta: ”Penso che tutti gli esseri umani debbano avere il diritto di viaggiare, di oltrepassare i confini per vedere il mondo. Che lo facciano per il pane o per i sogni. Ma, dopo aver visto la situazione che c’è qui con la crisi finanziaria, la disoccupazione e il razzismo, non riesco proprio a capire come si possa rischiare di morire in mare per fare una vita così”. La primavera tunisina ha prodotto due effetti principali nei giovani: da una parte sono aumentate le partenze verso l’Europa; dall’altra sono nati nuovi incentivi a restare e provare a cambiare le cose nel Paese, come radio libere, associazioni e gruppi di vario tipo. Le migliaia di migranti dispersi nel Mediterraneo sono figli della rivoluzione, così come lo sono Najib e i suoi amici. Due facce della stessa medaglia.