Oltre il ponte c’è la vita

Pubblichiamo questo articolo di un nostro compagno di strada, oggi impegnato in Siria.

Qui la settimana lavorativa comincia di domenica. E oggi è domenica di Pasqua. Pare che la festa della resurrezione si sia affermata sull’antica festa pagana che celebrava l’arrivo della primavera e dunque della vita. Domenica di Pasqua, prima volta che atterro in Iraq.

Nel Kurdistan iracheno, represso da Saddam, arricchitosi poi perché escluso dall’embargo internazionale sul petrolio. Erbil è dunque una grande città moderna del Medio Oriente. È piovuto, le valli intorno sono verdi e il cielo appare vasto e profondo. C’è traffico e da queste parti è la prima causa di mortalità, in fondo aveva ragione Begnini. I pannelli verdi dell’autostrada indicano Mossul. Comincio a chiedermi quanto vicino passeremo dalla città assediata. Forse un centinaio di chilometri ci separano da una delle roccaforti dell’Isis, ma la zona non è per nulla militarizzata.

Poi finalmente la frontiera con la Siria. Acquisito il lasciapassare della Rojava, la regione autonoma e rivoluzionaria dei curdi (30 milioni di persone senza patria) ci avviciniamo alle rive del Tigri. Un nome che dai tempi delle elementari mi incute rispetto, culla della civiltà. Le piogge hanno ingrossato il letto del fiume. Ci imbarchiamo per una traversata di pochi minuti. Mentre l’acqua scorre sotto la barca, penso alle migliaia di siriani che con mezzi di fortuna hanno solcato altri perigliose acque per cercare salvezza in Europa. Essere fra i pochi che rischiano in direzione ostinata e contraria mi carica di una responsabilità simbolica. Con il solo gesto dell’esserci, spero, con umiltà, di ricucire questa umanità comune lacerata dalla violenza, quella folle dell’Isis, un fantasma dietro ogni curva, o quella degli Stati, in primis la Turchia che si afferma con un lunghissimo nuovo muro tra i due paesi, o la Comunità Europea, che in fondo sta pagando il mio stipendio attraverso l’aiuto internazionale, senza esigere un vero cessate il fuoco.

La Siria in frammenti, come un vaso antico caduto al suolo, qui si mostra calma. Una tranquillità recuperata da poco e subito vissuta. In fondo, mi dico, le persone qui, come a Gaza, continuano a vivere. Come possono e fino a quando Dio lo vorrà. Condividere il destino di questa umanità mi conforta. Una vita vale una vita. Perché dovrei aver più paura di quanta non ne abbiano i miei vicini di casa, che ci accolgono con un sorriso di benvenuto, senza trapelare il dolore di battaglie che hanno portato via i loro figli?

Oltre la paura, c’è l’incontro. Non risolve nulla, ma è un primo passo. Oltre il ponte, quello galleggiante e precario per i pochi camion alla frontiera, o quello inesistente tra le comunità in guerra, come diceva Calvino, c’è la vita.