Ne resterà soltanto uno (?)

 Highlander - Es kann nur Einen geben

L’articolo di Nando Dalla Chiesa, “Benvenuti al circo dell’antimafia” di qualche giorno fa, è stato la classica bastonata ad un vespaio. Le vespe sono ancora tutte agitate e pungenti.
Ho già avuto modo di scrivere, rispondendo all’articolo di Galli della Loggia, che rigore, concretezza e correttezza servono all’antimafia come l’ossigeno per vivere. Quindi non ho bisogno di ripetere l’argomento.
Ho però una preoccupazione, che sintetizzo così: qual è lo spirito con il quale facciamo il contro pelo all’antimafia? Ovvero: cosa vogliamo ottenere?
C’è lo spirito di chi individua, anche con crudezza, mancanze e contraddizioni per discuterle, comprenderle ed eventualmente correggerle. C’è lo spirito di chi individua quelle stesse mancanze per trasformarle in manganelli contundenti: colpire, ferire, togliere di mezzo. 
Al di fuori del perimetro del penalmente rilevante, che impone anche ad ognuno di noi il dovere della denuncia, credo che si debba avere il coraggio del primo approccio. Si, il coraggio, perché ce ne vuole di più ad ascoltare, comprendere ed eventualmente a correggere, che a colpire per eliminare. E’ il coraggio umano, umanissimo della tenerezza, di cui ha ancora parlato recentemente Papa Francesco. E’ il coraggio umano, umanissimo della corresponsabilità.
Faccio degli esempi, che riguardano alcuni dei protagonisti (attivi o passivi) dell’infuocato dibattito sulla caratura dell’antimafia, esempi che a me personalmente hanno detto del valore di queste persone.
A Nando Dalla Chiesa devo il primo forte richiamo, diversi anni fa, all’emergenza ‘ndrangheta al nord, in Lombardia segnatamente. Ancora a Dalla Chiesa devo preziosi strumenti di interpretazione sociologica e sistematica delle mafie che hanno aiutato più di una generazione a comprendere meglio di cosa ci stiamo preoccupando ed occupando.
A Giulio Cavalli devo la profondità e la sensibilità con la quale ci venne ad incontrare tra il 2008 e il 2009 in quella Cascina a San Sebastiano da Po, liberata dalla presenza ‘ndranghetista  e fatta rinascere dalla rete di Libera. L’avevamo dedicata al giudice Bruno Caccia e a sua moglie Carla, perché da quella cascina i Belfiore avevano comandato di ucciderlo. Da quegli incontri sarebbe nata una delle pagine più commoventi e utili del teatro di Cavalli: Il sorriso di Bruno Caccia.
Ad Antonio Turri devo la comprensione della così detta V mafia e la memoria di don Cesare Boschin: con Turri ci siamo affacciati sugli interessi delle mafie nel basso Lazio, abbiamo compreso Fondi, conosciuto i Casamonica e il coraggio di un prete ucciso malamente.
A Tonino Palmese devo che “tutt’altro che” col quale ci parlava dei ragazzi rinchiusi a Nisida e della condanna, più pesante di quella penale, che sta nel giudizio morale, appiccicato senza appello sulla vita di questi giovani: “Voi siete nient’altro che”. Condanna morale alla quale don Palmese si è sempre, strenuamente opposto, proponendo quell’altro sguardo: “Voi siete tutt’altro che”. Pura rivoluzione. 
Ad Attilio Bolzoni devo quel misto di capacità di analisi e di memoria storica, che rende le ricostruzioni giornalistiche vere e proprie lenti per comprendere il presente e che ho ancora recentemente apprezzato, ascoltandolo intervenire con Violante, Bindi e Pisanu per i cinquant’anni della Commissione antimafia.
E potrei continuare.
Qualcuno ora sorriderà e penserà: Mattiello sei un gran paraculo.
Non importa. Sono convinto che sia importante aver il coraggio del “primo approccio” anche per una più precisa ragione che attiene proprio al paradigma culturale che vorremo obiettare e per altro verso costruire. 
L’essenza del paradigma culturale mafioso non è forse quel mix di avidità e violenza che fa dell’identità del clan, una forza spietata, escludente?
In un certo modo di portare i colpi della polemica dentro il vasto consorzio umano della così detta antimafia, non c’è forse questo stesso paradigma? Nella logica indicibile del “Ne resterà soltanto uno… e sarò io!” quello più cazzuto, quello più coraggioso, quello più tenace, non c’è quella stessa logica “eroico-martiriologica” denunciata da Dalla Chiesa? Non rischia così l’antimafia di diventare megafono di questa stessa cultura superomista e violenta? 
Io credo che sia una strada senza uscita. 
Credo che ci voglia un salto di paradigma, quello profetizzato saggiamente tanti anni fa da una delle prime campagne di Libera: “Costruiamo una comunità alternativa alla mafia“. Che io ho sempre tradotto come “alternativa” a questo paradigma. Credo che la cultura della nonviolenza abbia ancora tanto da insegnarci. Credo che si debba “disarmare”, come scrisse un’amica tanti anni fa su un documento politico, per combattere meglio e diversamente insieme. Perché beato è davvero quel popolo che non ha bisogno di eroi. All’Italia non serve la retorica degli eroi senza macchia e senza paura (che regolarmente muoiono soli), serve il rigore affettuoso della corresponsabilità. 
Perché se dovesse davvero restarne soltanto uno, avremmo perso tutti.
 
Davide Mattiello