7 anni…

Marcello

Un articolo di Andrea Zummo – Pare un film, o forse una telenovela, di quelle che non finiscono mai e ti accompagnano da una vita. Il processo a carico dell’ex senatore Marcello Dell’Utri, imputato a Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa, ha avuto ieri l’ennesimo colpo di scena. Eh sì, perché questa storia, che non è fiction, si trascina dal 1994, quando le indagini ebbero inizio. Ieri, la corte d’Appello di Palermo ha confermato la condanna a 7 anni, che la Cassazione aveva cancellato, ordinando di ricominciare il procedimento dal secondo grado del giudizio.

Quindi, in un susseguirsi di episodi ora grotteschi, ora osceni, in questi quasi vent’anni abbiamo assistito, sul fronte processuale a: una condanna a 9 anni in primo grado, ridotta a 7 in appello, la Cassazione che decide di rifare il processo dall’appello e ieri che arriva la nuova conferma a 7 anni, in attesa dello scontato, e speriamo ultimo, ricorso in Cassazione. Tuttavia la posizione di Dell’Utri, ormai riguarda il periodo compreso tra gli anni ‘70 e il 1992, periodo nel quale ci sarebbe stato il concorso esterno; mentre per gli anni successivi, la posizione del fondatore di Forza Italia e dirigente di Publitalia, è ormai stralciata. Per questo, molti temono che non si farà in tempo: nel 2014 scadranno i termini per la prescrizione, in merito ai reati contestati a Dell’Utri.

L’ex senatore ha dichiarato ieri:

“Se arrivasse la prescrizione direi come Andreotti e cioè sempre meglio che niente. E’ una possibilità e staremo a vedere. Io attendo, gli altri facciano i calcoli. Per quel che mi riguarda speravo in un’altra sentenza, ma è arrivata questa condanna: il mio romanzo criminale. Ma accetto il verdetto.”

Certo, i conti non ci tornano, lasciatecelo dire. E non per le polemiche da quattro soldi, fumo negli occhi per il pubblico, sulla sua attività di bibliofilo e i suoi presunti “scoop”, quasi sempre rivelatisi bufale enormi: i diari inediti di Mussolini, le pagine mancanti del romanzo incompiuto di Pasolini, “Petrolio”, proprio quelle riguardanti la morte del presidente dell’Eni, Mattei.

Non per questo.

Perché un processo a un uomo politico, per un’accusa tanto grave, non può durare così a lungo.

Perché Dell’Utri era amico di Vittorio Mangano, che mafioso era fatto e finito, oltre che omicida e narcotrafficante. Nella campagna elettorale del 2008, con Mangano ormai defunto da anni, Dell’Utri arrivò a definirlo il “suo eroe”, perché in carcere non aveva ceduto alle pressione e fatto il suo nome, o quello di Berlusconi (quest’ultimo aveva assunto Mangano come stalliere nella sua villa di Arcore, negli anni ’70, grazie a Dell’Utri che glielo aveva presentato).

Perché dichiarò qualche anno fa, Dell’Utri, di far politica solo per difendersi dalla magistratura e dalle accuse nei suoi confronti, di rapporti con la mafia.

Perché è attualmente imputato, come se il resto non bastasse, nel processo per la cosiddetta Trattativa, che comincerà a maggio.

 

Non siamo felici per una condanna di un uomo politico, accusato di rapporti con la mafia. Saremo un Paese civile quando non ci sarà bisogno di arrivare a simili episodi, quando non susciteranno l’applauso o l’indignazione ex post, ma produrranno, prima!, solo la censura morale e collettiva degli italiani. Quando il politico di turno, non aspetterà la sentenza definitiva per accuse tanto gravi, ma sceglierà, perché saranno il suo partito e il suo Paese a chiederglielo, di dimettersi. Quando prevarrà il moralmente ripugnante, sul penalmente rilevante.

Fino ad allora, saranno vittorie di Pirro e chiacchere da caffè.

Con o senza Dell’Utri.