Mai più CIE

cie

MAI PIU’ CIE

foglio di via alla violazione dei diritti umani

 

La Campagna LasciateCIEntrare è nata nel maggio del 2011 dall’iniziativa di alcuni settori attivi della società civile insieme alla Federazione Nazionale della Stampa e all’Ordine dei Giornalisti in risposta alla circolare 1305/2011 emanata dall’allora Ministro dell’Interno che vietava l’ingresso agli organi di stampa e di gran parte delle associazioni nei Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE). Proprio a seguito dell’azione di pressione portata avanti dalla Campagna, a dicembre 2011 la circolare è stata ritirata ma il problema dell’accesso ai CIE permane, non solo per i giornalisti e le associazioni, ma persino per gli avvocati che dovrebbero far valere i diritti di difesa dei trattenuti. Infatti, l’elevata discrezionalità delle singole Prefetture nell’autorizzare l’accesso determina ancora oggi una censura di fatto. La Campagna ricorda come la normativa europea prevede che “I pertinenti e competenti organismi ed organizzazioni nazionali, internazionali e non governativi hanno la possibilità di accedere ai centri di permanenza temporanea…. Tali visite possono essere soggette ad autorizzazioni” (Direttiva 2008/115/CE art. 16 co. 4). Il diritto europeo prevede quale regola generale il diritto di accesso ai CIE da parte di enti che vogliano monitorare le condizioni effettive in cui si svolge il trattenimento e la possibilità che le visite siano soggette ad autorizzazione non deve ostacolare di fatto, con procedure lunghe e dilatorie, il concreto accesso alle strutture, come invece avviene in Italia.

 

Nel corso di oltre due anni, la Campagna ha promosso un monitoraggio costante rispetto alle condizioni di vita dei migranti nei CIE, strutture degradate oltre il limite della vivibilità e del rispetto della dignità umana e dove si verificano continue e sistematiche violazioni dei diritti umani fondamentali.

Due le mobilitazione nazionali organizzate, il 25 luglio del 2011 e dal 23 al 28 aprile del 2012, con presidi in dieci diverse città che hanno visto la partecipazione di parlamentari, associazioni e organizzazioni della società civile, sindacati, giornalisti. Molte inoltre le visite effettuate in forma ufficiale come delegazione della campagna con parlamentari, giornalisti, avvocati, sindaci, assessori, sindacati e associazioni della società civile.

 

Ne è emerso come il sistema della detenzione amministrativa per i migranti rappresenti un vulnus nel nostro sistema giuridico, in quanto prevede la privazione della libertà personale per chi non ha commesso alcun reato, se non quello “formale” dell’assenza di permesso di soggiorno (illecito amministrativo introdotto dalla legge 94/2009 cd. “legge sicurezza”).

 

I centri di detenzione amministrativa sono stati introdotti dalla legge Turco-Napolitano (con la denominazione di CPTA – Centri di Permanenza Temporanea e Assistenza con limite di trattenimento ai 30gg). Il periodo di trattenimento è stato poi prolungato a un massimo di 60 giorni (L. 189/2002 cd. Bossi-Fini), poi a 180 giorni (L. 125/2008) sino ad arrivare per iniziativa dell’ex Ministro dell’Interno Maroni a un massimo di 18 mesi (D.L. 89/2011). Denominati Centri di Identificazione ed Espulsione dalla legge 125/2008, i centri si sono dimostrati nel corso degli anni inefficaci e fallimentari.

 

La Campagna osserva che, per quanto la normativa europea non censuri l’istituto della detenzione amministrativa, ne ammette l’utilizzo solo come extrema ratio, mentre in Italia esso è assunto come strumento ordinario di esecuzione delle espulsioni.

 

I tanti episodi di rivolte e di fughe, di suicidio, di autolesionismo, il racconto delle violenze subite, lo stato di prostrazione che provocano anche pochi giorni di detenzione, l’alto tasso di consumo e abuso di psicofarmaci indispensabili a sopportare un “regime carcerario” legalizzato sono comprovati non solo dalla cronaca ma anche da approfondite ricerche svolte da organizzazioni nazionali e internazionali indipendenti e tra esse la stessa preoccupata relazione curata dalla Commissione De Mistura istituita dal Governo italiano nel 2007 che, a conclusione del rapporto, propose il progressivo superamento dei CPTA. Simili le conclusioni a cui è giunta con un approfondito rapporto nel 2012, mostrando continuità,  la Commissione Straordinaria per la Tutela e Promozione dei Diritti Umani del Senato, nella precedente legislatura, presieduta dall’On. Marcenaro.

 

A fronte di queste gravi violazioni dei diritti umani, la Campagna sottolinea l’inefficacia e l’inefficienza dei CIE. rispetto alle funzioni affidate ad essi dal legislatore: negli anni, meno della metà delle persone detenute nei centri è stata effettivamente rimpatriata a fronte di costi elevati per l’allestimento, la gestione, la manutenzione e la sorveglianza delle strutture. La Campagna sottolinea, altresì, come i diritti delle persone trattenute non siano disciplinati da alcuna norma primaria, bensì siano affidati ad una generica e lacunosa disposizione regolamentare e persino a meri “capitolati” di gestione.

 

Una società civile che si interroga

I gravissimi episodi verificatisi recentemente nei CIE di Gradisca d’Isonzo, di Crotone e di altre città italiane di cui hanno parlato le cronache, ripropongono con forza la necessità e l’urgenza della immediata chiusura di tutti i CIE e di una riforma radicale della normativa sulle espulsioni e dell’immigrazione in generale, come peraltro sottolineato dai numerosi studi che si sono succeduti negli scorsi mesi (A Buon Diritto, Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, Medici per i diritti umani, Lunaria, Antigone, ASGI, MSF, Emergency, Amnesty, HRW) dalle indagini di organismi istituzionali (Commissione UE, Unione Camere Penali Italiane, Consiglio d’Europa, Corte dei Conti) e dalla Campagna di informazione e di sensibilizzazione  LasciateCIEntrare, che ha effettuato diverse visite nei centri con giornalisti, avvocati, rappresentanti di associazioni e parlamentari, realizzato video di informazione, eventi di sensibilizzazione e di informazione per far conoscere le reali condizioni dei CIE all’opinione pubblica.

 

Qui di seguito si espongono sinteticamente alcune delle ragioni e delle criticità riscontrate a sostegno della necessità di una chiusura immediata dei CIE.

 

1)                  I CIE SONO DISUMANI, INEFFICACI E COSTOSI

Le condizioni materiali del trattenimento amministrativo sono pessime e diseguali tra i differenti centri. La privatizzazione della detenzione amministrativa comporta che gli appalti per la gestione vengano affidati mediante offerte al ribasso, con conseguente estremo scadimento del livello dei servizi minimi essenziali nelle strutture, sempre più fatiscenti. Inoltre dal 2011 (governo Monti), l’appalto per la gestione dei Centri è passato sotto la mannaia della spending review. Questo ha fatto sì che da una spropositata differenziazione dei costi di gestione nella fase precedente (es. Modena 72 euro al giorno per trattenuto, Lamezia Terme 26 euro) si sia passati ad una uniformità che prevede una spesa massima giornaliera di 30 euro pro capite. In tale maniera, non solo in molti centri sono cambiati gli enti gestori ma i sopravvenuti hanno garantito il proprio agire non pagando regolarmente o riducendo il numero dei dipendenti, offrendo servizi ancora più scadenti e pericolosamente insufficienti.

 

Il controllo esterno dei centri è per convenzione affidato ad appartenenti a forze dell’ordine e a militari spesso privi  di adeguata formazione, a differenza di quanto accade nelle carceri. Il controllo interno è, teoricamente affidato al personale dell’ente gestore ma, in situazioni di tensione, interviene lo stesso personale adibito alla vigilanza esterna. Manca un organismo di controllo indipendente dal Ministero dell’Interno (mentre in carcere la magistratura di sorveglianza svolge il ruolo del giudice dell’esecuzione della pena). In assenza di un giudice del trattenimento(tali non sono i giudici di pace, sia perché non hanno adeguata formazione, sia perché non hanno il potere di vigilare sulle modalità della detenzione) violenze e soprusi sono all’ordine del giorno.

Il trattenuto ha evidenti difficoltà ad accedere ai regolamenti interni ed alle informazioni che lo riguardano, comprese quelle relative alla durata del trattenimento. Infatti questo termina se e quando le questure riescono ad organizzare l’accompagnamento nel Paese di appartenenza. Non c’è alcuna certezza sui tempi di detenzione se non il termine massimo di 18 mesi complessivi. La costante difficoltà di interlocuzione con ambasciate e consolati dilata a dismisura la durata del trattenimento, ad esclusivo danno dei migranti trattenuti,degli operatori e della collettività in generale.

La difesa è di fatto e di diritto spesso inesistente e il controllo giurisdizionale della legittimità della detenzione diventa una farsa, soprattutto quando non si garantisce il contraddittorio e le autorità di polizia allegano il rifiuto dell’immigrato a partecipare all’udienza che lo riguarda. Al fine di rendere effettivo il diritto di difesa e per non pregiudicare il principio del Giudice naturale, emerge la necessità di svolgere le udienze nel luogo ove lo straniero sia fermato e non nel CIE, spesso lontanissimo dal luogo in cui la persona è stata fermata. Si potrebbe adottare il meccanismo che venne proposto dall’UCPI all’allora Ministra della Giustizia Severino in sede di discussione del ddl sulle c.d. “Porte girevoli”, prevedendo camere di sicurezza c/o i Tribunali, tanto più opportune se si ribadisce la competenza del Tribunale, a dispetto del Giudice di Pace.

 

La promiscuità tra i trattenuti aumenta il disagio: l’unica distinzione è tra maschi e femmine. Diversamente, convivono forzatamente, nel tedio totale migranti appena giunti, ex detenuti, lavoratori da anni in Italia che hanno perso il titolo di soggiorno (e non si sono allontanati), persone con i familiari regolarmente residenti, richiedenti protezione internazionale, minori e malati. Non si è ancora riusciti a spezzare il circuito vizioso carcere – CIE, che già nella passata legislatura la Commissione Straordinaria per la Tutela e la Promozione dei diritti Umani del Senato aveva evidenziato, proponendo espressamente che gli immigrati fossero identificati durante il periodo della detenzione penitenziaria e non dopo la loro messa in libertà. Di fatto, si configura ancora oggi quella “doppia pena” che in altri paesi come la Francia è stata ritenuta non coerente con il dettato costituzionale. Peraltro occorre ricordare che l’Art 15 Testo Unico Immigrazione al comma 1 bis esplicitamente prevede “Dalla emissione del provvedimento di custodia cautelare o della definitiva sentenza di condanna ad una pena detentiva nei confronti di uno straniero proveniente da Paesi extracomunitari viene data tempestiva comunicazione al questore ed alla competente autorità consolare al fine di avviare la procedura di identificazione dello straniero e consentire, in presenza dei requisiti di legge, l’esecuzione dell’espulsione, dopo la cessazione del periodo di custodia cautelare o di detenzioneIn seconda istanza, per rompere il meccanismo carcere – CIE, sarebbe sufficiente applicare la direttiva Amato – Mastella del 30 luglio 2007. In base a tale accordo che riguardava il Ministero dell’Interno e quello della Giustizia, si sarebbe dovuto intervenire per facilitare l’ingresso dei funzionari dei consolati dei paesi di provenienza dei detenuti, condannati in via definitiva, per effettuare identificazione direttamente in carcere. I ministeri non hanno compiuto passi concreti, dai consolati dei paesi non è emersa alcuna disponibilità a impiegare proprio personale in tal senso anche quando gli stessi detenuti si propongono di scontare la pena residua nel paese di origine.

 

Come risulta dal rapporto presentato da MEDU “Arcipelago CIE”, all’interno dei CIE non è presente il SSN, essendo l’assistenza erogata dall’ente gestore, in regime di convenzione con le prefetture. Dunque è il personale sanitario del CIE che decide se e quando disporre il ricovero di un trattenuto in ospedale o sottoporlo ad esami clinici, senza alcun controllo. I dati confermano la larga diffusione – riguarda oltre il 40 per cento della popolazione trattenuta – di psicofarmaci, soprattutto benzodiazepine.

 

I CIE sono totalmente inefficaci rispetto agli obiettivi prefissati: l’esecuzione materiale dell’allontanamento dall’Italia e dalla fortezza Europa. Infatti, meno della metà dei trattenuti viene effettivamente espulsa, con costi esorbitanti di gestione (si richiama lo studio di Lunaria “Costi disumani”, i capitolati d’appalto come ad es. quello della Prefettura di Torino con la Croce Rossa la recente inchiesta della Corte dei Conti sul rientro di una scorta in business class …). Inoltre si segnala che, al di là della vicenda giudiziaria che a Gradisca d’Isonzo vede sotto inchiesta tredici imputati, tra i quali un viceprefetto ed il responsabile dell’ente gestore, in tutti gli altri CIE italiani sono state aperte indagini sia penali che amministrative.

Ad oggi poi sono 6 sui 13 esistenti, i CIE operanti sul territorio nazionale. Quelli in funzione trattengono un numero di persone assai minore della capienza per cui sono stati realizzati.

 

Le continue violazione dei diritti fondamentali delle persone, l’inefficacia e i costi elevati impongono la chiusura dei CIE nell’interesse della tutela dei diritti delle persone, nell’interesse generale e dal punto di vista del dei criteri di controllo della spesa pubblica.

 

2)                  I CIE SONO INCOSTITUZIONALI

Benché nel lontano 2001 la Corte costituzionale avesse salvato la costituzionalità degli allora CPTA (sent. n. 105/2001), le modifiche apportate dalla legge Bossi – Fini nel 2002 e dalle successive, nonché l’entrata in vigore della “Direttiva rimpatri” rendono incostituzionali gli attuali CIE. Infatti:

– la restrizione della libertà personale – per un lasso di tempo fino ad un anno e mezzo – è disposta in via ordinaria (e non eccezionale) dall’autorità amministrativa e non da quella giudiziaria, il che contrasta con l’art. 13 della Costituzione;

– l’autorità giudiziaria (il giudice di pace) non ha alcun potere di graduare la durata del trattenimento, che dipende esclusivamente dalle richieste di proroga avanzate dalle questure. Risulta svilita la riserva di giurisdizione che presiede alle limitazioni della libertà personale in base al già menzionato art. 13;

– le “modalità” del trattenimento amministrativo non sono stabilite, per legge, ma solo (e blandamente) per via regolamentare: ciò comporta un’ulteriore violazione dello stesso articolo (la legge stabilisce i “casi e i modi” della limitazione della libertà personale). A differenza del carcere,  dove le condizioni di detenzione sono stabilite dall’ordinamento penitenziario, che è legge dello Stato, nella attuale disciplina dei CIE si realizza anche un’evidente violazione della riserva di legge stabilita dall’art. 10 della Costituzione relativamente alla condizione giuridica dello straniero;

– la direttiva 2008/115/CE disegna un sistema espulsivo in cui il ricorso al trattenimento costituisce l’extrema ratio. Solo in casi eccezionali si può disporre la limitazione della libertà, e per motivi dettati dal comportamento dello straniero che deve essere allontanato che si rifiuta di collaborare alla sua espulsione, sempre che nessuna altra misura meno coercitiva possa essere in concreto disposta. Ebbene, la previsione della immediata esecuzione di tutte le espulsioni (residuato della legge Bossi – Fini) e la sostanziale disapplicazione della Direttiva Europea sui rimpatri, comportano che il trattenimento in Italia sia sempre automaticamente applicabile, ma solo in base ai posti disponibili nei CIE ed oggi oltre la metà dei centri risultano chiusi oppure operano con una capienza dimezzata. Quando l’espulsione non può esser eseguita immediatamente  (previa convalida del giudice di pace) nè vi sono posti disponibili nei Cie, allo straniero viene ordinato di lasciare il territorio nazionale entro sette giorni, pena l’emanazione di una nuova espulsione. Il mancato trattenimento dipende quindi dal caso e non da un sistema graduale ed organico di esecuzione delle misure di allontanamento forzato. Ciò viola gli artt. 10 Cost. (la condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge, in conformità delle norme e dei trattati internazionali) e 117 (la potestà legislativa è esercitata nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali).

 

3)                  PER UNA DIVERSA DISCIPLINA DELLE ESPULSIONI

Non è sufficiente smantellare il sistema degli attuali CIE né la questione si può ridurre ad un loro “miglioramento”. Il superamento della necessità della detenzione amministrativa comporta di metter mano ad una revisione del sistema espulsivo italiano rispettoso dei diritti fondamentali delle persone, della Costituzione repubblicana e delle norme sovranazionali. La chiusura dei CIE va inquadrata nell’ambito di un progetto più ampio di abrogazione della legge Bossi-Fini e del cosiddetto pacchetto sicurezza (Legge 94/2009), della abrogazione del reato di clandestinità ad una nuova disciplina degli ingressi, non esclusa la necessità di individuare percorsi di regolarizzazione permanente degli immigrati irregolari.

 

Per quanto concerne in particolare la detenzione amministrativa occorre considerare quanto richiamato nel Programma di legislatura proposto dall’A.S.G.I, sia con riferimento a possibili modifiche legislative, che con la proposta di nuove prassi applicative che rispettino maggiormente la disciplina già vigente a livello comunitario e in particolare

 

1.Razionalizzare le tipologie espulsive

Attualmente la legge prevede due differenti tipologie di respingimento alla frontiera, quattro tipi di espulsioni giudiziali e ben sedici differenti tipologie di espulsioni amministrative. A questa inflazione di tipi di espulsione non corrisponde né efficienza né garanzie.

Occorre dunque limitare il ricorso all’espulsione ai soli casi in cui il soggiorno legale non sia più concretamente possibile, secondo le varie disposizioni del TU immigrazione, neppure a fronte di forme di regolarizzazione permanente che consentano di acquisire e mantenere il diritto al soggiorno in presenza di sicuri indici d’integrazione (identificazione certa e possesso di documenti validi, assenza di condanne significative sotto il profilo della effettiva e attuale pericolosità sociale, accertata disponibilità di mezzi di sostentamento, derivante anche da sostegni familiari o di persone che si impegnano al mantenimento). Andrebbero poi comunque riviste tutte quelle norme del testo unico che producono irregolarità (che spesso definiamo “fabbriche della clandestinità”), ad esempio l’impossibilità di convertire il titolo di soggiorno per turismo a quello per lavoro, la mancata previsione dello sponsor, la difficoltà di rinnovo/conversione al compimento della maggiore età, i parametri troppo rigidi per garantire il ricongiungimento familiare.

 

2. Incentivare forme di rimpatrio/rientro volontario

Nei casi in cui il progetto migratorio non possa essere legittimamente protratto, invece di far prevalente ricorso a costose e inefficaci forme coercitive di esecuzione delle espulsioni, occorre dare piena attuazione alle modalità di rimpatrio assistito, ampliandone la portata, e comunque, prima di procedere all’uso della forza, attuare la Direttiva 2008/115/CE mediante il  riconoscimento di un congruo termine per la partenza volontaria, corredato – in caso di ottemperanza – dal venir meno automatico del divieto di reingresso. Si potrebbe ad esempio prevedere un biglietto di ritorno “aperto”, pagato dallo straniero (o dal suo datore di lavoro) al momento di rilascio del titolo di soggiorno, come già previsto per il visto per soggiorni di breve durata.

 

 

3. Identificazione e allontanamento delle persone pericolose

È impensabile che, in uno Stato di diritto, uno straniero detenuto e ritenuto dal giudice socialmente pericoloso possa essere ulteriormente ristretto in un CIE quando – a pena scontata– deve essere identificato ai fini dell’allontanamento: con conseguente aggravio di “pena” per l’interessato e sperpero di risorse per la P.A. E’ urgente prevedere modalità di identificazione e predisposizione dei documenti necessari all’accompagnamento durante l’esecuzione della pena (in carcere o nelle differenti forme di espiazione); per conseguire questo obiettivo il Ministero della Giustizia deve adeguatamente investire nelle necessarie risorse, in sinergia con quello dell’interno, al fine ottenere la fattiva collaborazione delle autorità consolari dei Paesi di provenienza dei condannati ritenuti pericolosi con sentenza definitiva.

 

4. Pienezza ed effettività del controllo giurisdizionale

Ogni forma di limitazione della libertà personale degli stranieri deve essere conforme alla riserva di giurisdizione prevista dall’art. 13 della Costituzione, e perciò ogni competenza in materia deve spettare al solo giudice togato (non più il giudice di pace, ma il tribunale in composizione monocratica, al pari di ogni altra restrizione delle libertà fondamentali). All’autorità di pubblica sicurezza deve essere attribuito il solo potere di presentare al giudice la richiesta di respingimento od espulsione, affinché l’Autorità giudiziaria – in contraddittorio con l’amministrazione e lo straniero (assistito da difensore e con l’assistenza linguistica) – decida su di essa entro 48 ore.

La limitazione preventiva della libertà personale – cui deve conseguire la convalida giurisdizionale entro 48+48 ore) – ovverosia prima della decisione del giudice, potrà avvenire in ipotesi eccezionali e tassativamente indicate dal legislatore e comunque limitate ai soli casi di effettiva pericolosità sociale del cittadino straniero da espellere o nel caso sia evidente il rischio di fuga, oggettivamente non fronteggiabile con altre misure meno afflittive (deposito del passaporto o di una cauzione, obbligo di dimora, obbligo di presentazione agli uffici di polizia).

In tal modo, all’autorità amministrativa di pubblica sicurezza sarebbe riservato un mero potere propositivo circa la necessità di allontanamento dello straniero, mentre la decisione sarebbe riservata esclusivamente all’autorità giudiziaria, raggiungendo così la piena giurisdizionalizzazione del procedimento espulsivo.

 

5. Centri di identificazione ed espulsione

I CIE attualmente esistenti debbono essere immediatamente chiusi. Infatti, essi non solo sono costosi e inutili – tant’è vero che a fronte di elevati costi di gestione consentono l’effettivo rimpatrio di meno della metà degli stranieri trattenuti – ma violano palesemente plurimi precetti costituzionali e sono eticamente ingiusti. Oggi l’istituto del trattenimento rappresenta la regola e non l’eccezione (posto che quasi tutte le espulsioni sono eseguibili coattivamente) ed i modi della detenzione amministrativa non sono stabiliti per legge.

I CIE sono inoltre eticamente ingiusti perché comportano una restrizione della libertà personale senza reato sanzionando la mera irregolarità amministrativa, oltre ad essere degradanti della dignità umana. Qualora – in un contesto normativo profondamente innovato secondo le indicazioni sopra descritte – a seguito di decisione del giudice si ritenesse che la persona da allontanare sia socialmente pericolosa o si dimostri evidente il rischio di fuga oggettivamente non fronteggiabile con altre misure meno afflittive (deposito del passaporto o di una cauzione, obbligo di dimora, obbligo di presentazione agli uffici di polizia), in conformità con la Direttiva 2008/115/CE si potranno prevedere in casi eccezionali forme di limitazione della libertà circoscritte nel tempo breve, sotto il costante controllo dell’autorità giudiziaria togata, monitorate dal servizio sanitario nazionale e dagli enti di tutela degli immigrati e sempre ché il rimpatrio non sia oggettivamente impossibile, ipotesi in cui la restrizione alla libertà deve cessare e si deve disporre il rilascio di un titolo di soggiorno.

 

6. Gli accordi di riammissione

Gli accordi di riammissione possono agevolare gli allontanamenti degli stranieri privi di titolo di soggiorno legale, ma devono essere uno ad uno ripensati e rinegoziati in modo trasparente anche per garantire il rispetto dei diritti fondamentali, perché finora sono stati stipulati dai vari Governi in modo incostituzionale, cioè senza preventiva legge di autorizzazione alla ratifica prevista dall’art. 80 della Costituzione

 

7. Abrogare i reati che puniscono l’ingresso o il soggiorno irregolari dello straniero

I reati connessi all’ingresso o al soggiorno irregolari dello straniero devono essere abrogati, salvo che si tratti del reingresso illegale di stranieri condannati ed espulsi perché pericolosi socialmente: la previsione di future e incerte pene detentive o pecuniarie non ha alcuna effettiva efficacia nella prevenzione e nel contrasto dell’immigrazione irregolare (sono più efficaci i rimedi amministrativi), aumenta inutilmente il carico giudiziario e può fare entrare lo straniero nel circuito penitenziario, il che finisce per agevolare i contatti degli stranieri con la criminalità.

 

Su questi temi intendiamo rilanciare la campagna di mobilitazione e di sensibilizzazione a livello locale, nazionale ed europeo.

Appare necessario soprattutto il rafforzamento delle reti locali, in particolare a livello regionale, con una presenza ed un monitoraggio continuo dei luoghi di conflitto, non solo dunque nelle visite periodiche nei CIE e anche nelle altre strutture (centri informali) nelle quali comunque si realizza oggi la detenzione amministrativa. Occorre un coinvolgimento duraturo e non occasionale, insieme alle associazioni, delle istituzioni locali (Regioni, Province, Comuni, Autorità garante per i detenuti, Autorità garanti per i diritti dei minori, Tribunali minorili), e dei rappresentanti politici con un impegno quotidiano di proposta e di controllo  (attraverso atti ispettivi e visite periodiche) che affrontino gli aspetti più legati a problematiche sociali, come le condizioni igienico-sanitarie, al pari della doverosa tutela dei diritti fondamentali dei migranti comunque sottoposti a limitazioni della libertà personale e spesso privati dei diritti di difesa. L’esperienza maturata ci porta a ritenere prezioso un lavoro di “formazione” rivolto a tutti coloro che vogliono interagire con l’universo CIE (giornalisti, giudici, avvocati – con particolare riferimento ai legali di ufficio- interpreti, operatori, educatori, gestori, parlamentari, volontari e attivisti delle associazioni che se ne occupano..) e con le persone che vi sono trattenute. Una formazione che se ben realizzata permetterebbe, in questa fase, di analizzare con maggiori strumenti, le criticità di ogni singolo CIE nell’esatto momento in cui vi si entra.

 

Alla luce di queste considerazioni la campagna LasciateCIEntrare

CHIEDE

l’immediata chiusura di tutti i CIE d’Italia

 

Le alternative alla detenzione amministrativa e ai CIE sono possibili, come già enunciato, a partire innanzitutto dalla puntuale e corretta applicazione della Direttiva 2008/115/CE (cd. direttiva rimpatri) e comunque dall’indispensabile e improrogabile riforma complessiva del Testo Unico immigrazione d.lgs. 286/98. Sono urgenti una modifica del sistema degli ingressi, delle procedure di identificazione, della disciplina del soggiorno e delle espulsioni, una corretta applicazione della normativa europea sull’accoglienza che innalzi gli standard attualmente praticati, una riforma della legge sulla cittadinanza, una legge per l’introduzione del diritto di voto amministrativo, una legge organica sul diritto di asilo.

 

Le istanze della Campagna continueranno ad essere sottoposte alle forze parlamentari, politiche, amministrative, istituzionali e alla società civile e, contestualmente al percorso nazionale, la Campagna presenterà la propria posizione a livello europeo presso il Parlamento della UE. Questo il percorso che LasciateCIEntrare intende promuovere, anche in prospettiva del semestre di presidenza italiana in sede U.E. e alle elezioni in Europa nella primavera del 2014.

 

Ottobre 2013                                                                                                                                                                    www.lasciatecientrare.it