LasciateCIEntrare

di Cupelli Camilla

 

Il primo aprile dello scorso anno una circolare del Ministro Maroni aveva segnalato la chiusura dei CIE e dei CARA ai giornalisti: considerati “d’impedimento” per lo svolgimento delle attività di supporto ai migranti svolte all’interno dei Centri, ai cittadini è stato così vietato completamente l’ingresso. Niente più foto, niente più video, niente più interviste. Da allora sono state promosse diverse iniziative, la prima il 25 luglio dello scorso anno, per chiedere la revoca della decisione: “LasciateCIEntrare” è il nome della campagna che venne lanciata al fine di riappropriarsi della possibilità di narrare gli avvenimenti interni a CIE e CARA.

Proprio in questa settimana di aprile, tra il 23 e il 27, la campagna è stata rilanciata, per chiedere ancora con forza che venga garantito il diritto di sapere cosa accade all’interno di questi luoghi, per garantire la trasparenza e la denuncia: nonostante il ritiro della circolare, l’ingresso è ancora difficile, spesso garantito solo su base discrezionale. Venerdì 27 davanti al CIE di Corso Brunelleschi è stato convocato per le h.10.00 un presidio al fine di sensibilizzare sul tema.
Come Fondazione Benvenuti in Italia sosteniamo la Campagna “LasciateCIEntrare”, e chiediamo che i CIE vengano riaperti ai giornalisti. Ma non solo: come abbiamo già scritto in un comunicato di pochi mesi fa, chiediamo addirittura che i CIE vengano chiusi, in quanto luoghi di reclusione inumani.

 

Per provare a dare un quadro della situazione abbiamo chiesto ad Ibrahim, migrante di origine tunisina attualmente a Torino, di raccontarci cosa fa ogni giorno per aiutare chi si trova ancora nei CIE.

Quando mi sono trasferito qui, nell’aprile del 1989, la storia era diversa: non esisteva un visto tra Italia e Tunisia, l’ingresso era libero, perché a voler emigrare erano spesso gli italiani. Così sono arrivato qui in senza troppi problemi, con l’idea di trasferirmi in Svizzera. Invece, poi, sono rimasto: sono quasi 25 anni che sto a Torino. In questi anni ho cercato sempre di aiutare chi si trova all’interno del CIE di Corso Brunelleschi, tramite la comunità tunisina, tramite Fred Olivero e tanti altri.

 

Cosa puoi raccontarci della situazione del CIE torinese di Corso Brunelleschi?

Beh, potremmo definirlo un lager. Io non sono mai entrato, solo Suor Lidia, nostra collaboratrice, ha il permesso di farlo, e questo è un grande aiuto: tramite lei riusciamo a portare cibo, acqua, libri e generi di prima necessità all’interno delle mura. Ma all’interno dei CIE è pieno di persone che hanno lavorato in Italia anche per vent’anni e hanno versato i contributi e solo perché ora hanno perso il lavoro vengono rinchiuse: non hanno commesso reati, non c’è ragione di tenerli rinchiusi. Il problema è che ad un certo punto chi vive nei CIE non ce la fa più ad essere maltrattato.

 

Infatti, sotto Natale ci sono state diverse rivolte.

Esatto. Le rivolte di Natale sono l’emblema del malessere interno ai CIE. Ma non sono l’unico: prima di quelle rivolte un ragazzo aveva già minacciato di uccidersi: era stato un po’ “un caso”, e alla fine lo hanno mandato via dal CIE. Noi eravamo intervenuti per cercare di mediare, perché la situazione era molto tesa. Poi ci sono state le rivolte: come dicevo, ogni tanto chi viene rinchiuso non ce la fa più e si ribella.