Jobs act: tra promesse e realtà

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MERCATO DEL LAVORO: RIFORMA FORNERO, DECRETO LAVORO

 E JOB ACT, TRA PROMESSE E REALTÀ

 

Sono anni ormai che nel nostro Paese si discute di mercato del lavoro, riforme del lavoro, giovani e disoccupazione, ma poco o nulla è stato fatto. La crisi finanziaria che ha colpito il mondo intero a partire del 2008 non ha fatto altro che acuire le problematiche già presenti nel mercato del lavoro italiano, portando ad un drastico aumento della disoccupazione, soprattutto giovanile, e ad una significativa perdita di posti di lavoro.

 

Da queste osservazioni partiva la Riforma Fornero, definita dai suoi stessi promotori come storica, e che si proponeva di realizzare un mercato del lavoro inclusivo e dinamico, incrementando l’occupazione, in particolare dei soggetti più penalizzati dalla crisi: giovani e donne. La novità, trattandosi di diritto del lavoro, era l’obiettivo di favorire la crescita della produttività e di stimolare lo sviluppo e la competitività delle imprese.

Per ottenere tali risultati la riforma individuava diverse aree di intervento tra cui la razionalizzazione degli istituti contrattuali esistenti con particolare attenzione all’apprendistato, considerato il «trampolino di lancio verso la maturazione professionale dei lavoratori». 

 

Insomma, come troppo spesso accade, il preambolo della L. 92/2012 conteneva obiettivi lodevoli e condivisibili, ma gli interventi predisposti si sono presto dimostrati inadeguati ed insufficienti. La disoccupazione ha continuato ad aumentare e la crescita non è arrivata, così il Governo Letta ha subito avvertito la necessità di intervenire nuovamente sulla materia con l’approvazione del DL 76/2013; quali sono gli obiettivi dichiarati e gli interventi previsti? Ma, soprattutto, è all’altezza?

Perché non c’è più tempo, non c’è più tempo per provvedimenti inadeguati che si rivelino mere dichiarazioni di principio e nulla di più, non ci possiamo più permettere di aspettare che il tempo porti una crescita che non siamo in grado di costruire e nemmeno di immaginare. Ora più che mai è necessario intervenire con riforme concrete, coerenti e lungimiranti che partano da un’osservazione oggettiva delle problematiche del nostro mercato del lavoro per trovare nuove soluzioni e nuove vie, perché le strade intraprese negli ultimi decenni hanno chiaramente contribuito ad aumentare disoccupazione e precariato piuttosto che puntare al lavoro stabile e di qualità. Ma vediamo gli interventi più significativi del decreto.

 

Innanzitutto il Decreto lavoro crea incentivi per nuove assunzioni a tempo indeterminato dei giovani, tanto da far annunciare al Presidente Letta che si creeranno 200 mila posti di lavoro. Si prevede un incentivo pari ad un terzo della retribuzione mensile per 12/18 mesi per i datori di lavoro che assumeranno a tempo indeterminato giovani sotto i 29 anni. Giovani che devono avere la terza media, oppure vivere soli con una persona a carico, oppure essere disoccupati da più di sei mesi.

Davvero questo incentivo porterà alla creazione di 200 mila posti di lavoro?

Piuttosto improbabile se si considera che:

– Le condizioni in cui devono rientrare i giovani per essere assunti con questo contratto sembrano una presa in giro ed escludono la maggioranza dei ragazzi preparati e competenti con un alto livello di istruzione portando ad incentivare l’abbandono scolastico piuttosto che puntare sulla qualità;

– Ci si aspetta di convincere i datori di lavoro ad assumere a tempo indeterminato giovani evidentemente in difficoltà, con un incentivo che dura dai 12 ai 18 mesi. In Italia esistono più di 40 forme contrattuali che permettono ai datori di lavoro di assumere a basso costo e basso rischio ed a tempo determinato, perché mai un’azienda dovrebbe scegliere un contratto a tempo indeterminato per un blando incentivo quando può assumere a termine, con contratto di apprendistato, co.co.pro, contratti occasionali etc.?

– Creare posti di lavoro dovrebbe significare predisporre incentivi tali da convincere aziende e datori di lavori ad assumere giovani per coprire posti che altrimenti non esisterebbero. Quello che il Decreto prevede potrà al massimo permettere ad aziende che già funzionano e che avrebbero comunque assunto, di avere un’altra via per assumere a basso costo, non spingerà certo imprese in difficoltà a creare nuovi posti di lavoro sapendo di dover assumere a tempo indeterminato.

– Anche volendo credere all’efficacia dell’incentivo (osserva Boeri nell’Internazionale n. 1007) calcolando quanti sono gli stanziamenti previsti per i prossimi anni e che lo sgravio non può superare i 650 Euro al mese, al massimo ne potranno usufruire meno di 30 mila lavoratori.

– Da ultimo, ma non meno importante, visti i requisiti richiesti, difficilmente si può parlare di creazione di posti di lavoro di qualità.

Pertanto, la misura non appare idonea a raggiungere lo scopo prefissato, non può definirsi un incentivo efficace per creare nuovi posti di lavoro, esclude tutti quei giovani laureati, impegnati in tirocini o praticantati, mantenuti ad oltranza dai genitori in attesa di un posto di lavoro di qualità adeguato alle loro competenze.

Altro punto importante da analizzare del decreto è l’art.6 che interviene sulla normativa dei contratti a termine. La Riforma Fornero aveva eliminato la necessità di apposizione di una causa (ragioni di ordine tecnico, organizzativo o produttivo) per stipulare il primo contratto a termine tra un datore di lavoro ed il lavoratore, di una durata massima di 12 mesi  non prorogabile. La scelta era stata molto criticata da giuristi e sindacati poiché si sentiva la necessità di ridurre le assunzioni a termine per restituire al contratto a tempo indeterminato la sua centralità e combattere il precariato. Il Decreto 76/2013, però, persevera in questa direzione e va oltre, mantenendo la possibilità di stipulare il primo contratto a termine senza la necessità di una causa, anche in tutti gli altri casi previsti dai contratti collettivi, ed abrogando il divieto di proroga. Questo significa che un datore di lavoro potrà sempre assumere a termine un nuovo lavoratore senza doverne giustificare la straordinaria necessità e potrà prorogare questo contratto ben oltre i 12 mesi previsti inizialmente. Altro intervento in materia riguarda il periodo che deve trascorrere tra un contratto a termine ed il seguente. Uno dei pochissimi interventi della L.92/2012 giudicati positivamente dalle parte sociali, era l’aumento dell’intervallo minimo tra un contratto a termine ed il successivo. Il Decreto ripristina i termini precedenti di 10 e 20 giorni.

Viene, quindi, da chiedersi quale sia il vero scopo del Decreto poiché appare evidente che non si provi neanche a contrastare il precariato e l’abuso del contratto a termine.

Bisogna considerare, infatti, che nella pratica i datori di lavoro utilizzano i contratti a termine per garantirsi assunzioni a basso costo per brevi periodi e, spesso, per aggirare divieti di proroga e termini massimi, lo stesso soggetto ha intestate diverse società con cui assumere lo stesso lavoratore per diversi anni sempre con contratti a tempo determinato ed ora senza avere la necessità di una giustificazione. Prima della Riforma Fornero, la previsione della necessità di una causa espressa per la stipulazione di un contratto a termine ha portato, in giudizio, alla dichiarazione di illegittimità di 9 contratti su 10. Inoltre, già nel 2009, solo il 10 % dei contratti a termine venivano trasformati in indeterminati. Infine, ridurre il tempo tra un contratto a termine e l’altro vuol dire dare il colpo definitivo alla legalizzazione del precariato. Nella realtà, prendendo un esempio pratico, l’esperienza lavorativa sarà la seguente: il proprietario di un negozio potrà assumere una commessa con un contratto a termine senza cause per 12 mesi, prorogarli di altri 12-20, poi formalmente lasciarla a casa per 20 giorni (nella pratica è evidente che in un tempo così breve la lavoratrice continuerà a lavorare in nero) per poi riassumerla con un nuovo contratto a termine per altri mesi. Poi potrà liberarsene senza pagare alcun indennizzo, oppure semplicemente riassumerla con un altro contratto a termine formalmente per un’altra società che in realtà gestisce lo stesso negozio. Se si aggiunge la normativa sull’apprendistato, la lavoratrice in questione può essere dapprima assunta come apprendista (contratto a basso costo che nella realtà prevede una vera formazione in meno del 25% dei casi) e poi con contratto a termine. Quindi lavorerebbe per almeno sei anni nello stesso negozio senza alcuna garanzia, senza alcuna crescita, e potendo rimanere senza lavoro e senza alcun indennizzo al termine.

Possiamo parlare di lavoro di qualità? Dignitoso?

 

Se si prende in considerazione tutto questo, appare evidente che il DL Lavoro non intende davvero restituire al contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato la sua centralità ed affermare l’eccezionalità del contratto a termine, ma favorire ancora una volta la precarietà.

In ultima analisi, poi, il Decreto dimentica completamente tutti i giovani laureati, tirocinanti, dottorandi, praticanti e stagisti. Qualunque statistica conferma che le generazioni dei nati dopo il 1980 sono le più preparate ed istruite della storia, eppure, in totale contrasto con le esperienze precedenti, le aspettative future di queste generazioni sono peggiori di quelle dei loro genitori. C’è qualcosa di ragionevole in tutto questo? Quando la laurea diventa un semplice pezzo di carta, a perdere siamo tutti, paese compreso. Nel nostro Paese, secondo gli ultimi dati ISFOL 2011, i posti di lavoro altamente qualificati rappresentano meno del 20% del totale, di cui solo la metà occupati da lavoratori con un’istruzione terziaria e ciò anche a causa di un mercato composto per il 95% da piccole e medie imprese che non hanno ritenuto conveniente né efficiente assumere laureati ed investire sulla creazione di posti di lavoro qualificati ed adeguati alla loro preparazione. Già dal 2000, l’investimento in capitali innovativi e la propensione delle imprese a formare lavoratori, sono costantemente diminuiti. In tale contesto le imprese italiane hanno basato la competizione a livello nazionale sulla diminuzione dei costi di produzione, non investendo in capitale umano e nell’innovazione. Questo le ha aiutate a sopravvivere nel breve periodo ma non a confrontarsi con la grave crisi in atto, poiché rispondere alla perdita di competitività riducendo i costi immediati e limitando quelli destinati all’innovazione, non può produrre benefici futuri in termini di produttività e capacità competitiva.

È chiaro che una riforma della normativa giuslavorista, per quanto perfetta, in sé e per sé non può essere sufficiente a creare posti di lavoro stabile e di qualità e portare alla crescita, ma tale circostanza non può essere una scusa per prendere con superficialità l’importanza di intervenire sulla materia, che è necessariamente il primo passo per creare un mercato più competitivo ed inclusivo.

 

È evidente che bisogna intervenire su più fronti contemporaneamente:

1- Riduzione del precariato attraverso l’eliminazione della miriade di contratti atipici esistenti (più di 40) riducendo la flessibilità in entrata ed affermando l’eccezionalità dei contratti non a tempo indeterminato. L’unica vera utilità del contratto a termine/atipico dovrebbe essere quella di permettere al datore di lavoro di testare le capacità del lavoratore prima dell’assunzione e di poterlo formare. Per questo è sufficiente la prova e/o l’apprendistato e/o la previsione di un contratto unico a tutele progressive.

A proposito dell’apprendistato, la visione del Legislatore che lo individua come corsia preferenziale per l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, appare decisamente miope. L’assenza di un effettivo controllo sulla formazione offerta e sulle mansioni realmente svolte dai giovani così assunti, ha trasformato tale contratto in assunzioni a basso costo di manodopera di basso livello, senza portare, nella maggioranza dei casi, ad assunzioni stabili. A riguardo, sarebbe interessante pensare di imparare dall’esperienza del Trentino Alto Adige, ove si è provveduto all’approvazione di un Testo Unico regionale e, grazie anche alla costruttiva collaborazione tra parti sociali, il contratto di apprendistato è davvero utilizzato per formare lavoratori di altissimo livello che poi le aziende hanno interesse ad assumere per crescere ed essere competitive. Sul contratto unico a tutele progressive, potrebbe rivelarsi utile prendere spunto dalle proposte e considerazioni di Tito Boeri e Pietro Garibaldi (in Un nuovo contratto per tutti). La proposta prevede tre fasi: la prova, l’inserimento e la stabilità.

La prova dura fino a sei mesi; la seconda fase dura per tre anni, durante i quali il licenziamento può avvenire solo dietro una compensazione monetaria (da due a sei mesi di salario), salvo i casi di giusta causa. Per i licenziamenti discriminatori si applica, invece, la tutela reale ex art. 18. La compensazione monetaria aumenta di quindici giorni di retribuzione per ogni trimestre di lavoro. Superata questa seconda fase il contratto unico viene regolato dalla disciplina dei licenziamenti prevista dallo Statuto dei lavoratori. Nel testo si analizza poi la necessità strategica di una seria riforma degli ammortizzatori sociali, degli istituti di ricollocazione e formazione del lavoratore e l’istituzione di un reddito minimo garantito.

 

2. Aumento della flessibilità c.d. interna, attraverso un’organica normazione dello Jus Variandi, per creare nuove e più efficienti forme di flessibilità interna che permettano all’impresa di gestire meglio la propria manodopera nei periodi di crisi, senza procedere obbligatoriamente alla distruzione di posti di lavoro tramite i licenziamenti od il semplice mancato rinnovo dei numerosi contratti a termine. In proposito diverse indicazioni si ritrovane nei documenti della OIL e nella Strategia Europea per la flexicurity.

 

3. Razionalizzazione della flessibilità in uscita con una normativa chiara e precisa che permetta a datore di lavoro e lavoratore di avere contezza su quali potranno essere le conseguenze del licenziamento. È sicuramente da considerare che in un mercato del lavoro come quello italiano – caratterizzato da un forte dualismo che vede contrapporsi contratti a tempo indeterminato con annesse elevate tutele ad un grande numero di contratti flessibili (o a termine, o meglio precari), sempre più in aumento e che non riconoscono alcuna tutela alla loro estinzione – l’art.18 risulta, in realtà, lo spartiacque tra chi è entrato nel mondo del lavoro nei decenni scorsi e chi vi è entrato negli ultimi anni.

Si creano, quindi, enormi differenze tra protetti e non e il pesante costo della eccessiva tutela riconosciuta ai protetti pesa sulle spalle dei giovani e dei precari, sui quali si scarica la necessità di flessibilità delle aziende.

Per poter pensare di aumentare la flessibilità in uscita, però, è opportuno analizzare con attenzione i sistemi giuridici dei paesi che non prevedono l’art.18 per comprenderne tutti gli equilibri e non rischiare di portare ad un semplice aumento dei licenziamenti per poi sostituire i lavoratori a tempo indeterminato con contratti precari. Una riforma dell’istituto del licenziamento, infatti, non può prescindere da un previo riordino dei sistemi di ricollocazione e riqualificazione nonché degli ammortizzatori sociali. Non dimentichiamo, infatti, che il Parlamento europeo, ha più volte richiamato degli studi OCSE che hanno dimostrato la mancanza di prove della correlazione tra gli interventi di riduzione delle protezioni contro il licenziamento ed indebolimento dei contratti di lavoro standard e l’effettiva agevolazione della crescita dell’occupazione. Tra l’altro, nei paesi dove il mercato del lavoro ha risposto meglio alle esigenze imprenditoriali anche in tempo di crisi, la flessibilità in uscita è accompagnata da serie misure di politica attiva che attenuano efficacemente gli effetti sociali della disoccupazione tramite investimenti in percorsi di riqualificazione, ricollocazione e di supporto alle fasi di non lavoro. Non risulta, quindi, che la riforma dei licenziamenti sia la più urgente perché ovviamente non è facilitando il licenziamento che si creano posti di lavoro e per un intervento efficace è necessario una attenta riflessione su costi e benefici per lavoratori e datori di lavoro ed intervenire su flessibilità in entrata ed interna e su tutti gli aspetti della sicurezza.

 

4. Intervento sul sistema d’istruzione e formazione, promovendo gli investimenti sul capitale umano e creando un sistema produttivo più propenso ad investire in ricerca ed innovazione piuttosto che puntare su una competitività al ribasso dei costi di produzione. L’analisi comparata ha, infatti, mostrato come la qualità del sistema educativo e l’esistenza di percorsi d’integrazione e/o transizione dalla scuola al lavoro siano decisivi soprattutto per gli andamenti della disoccupazione giovanile. In periodi di crisi (come suggerito, tra l’altro, dalla Strategia Europa 2020, dal rapporto della OIL 2012 Better jobs for a better economy e dal Premio Nobel per l’economia del lavoro Christopher Pissarides) l’unica vera soluzione sul lungo periodo è investire in conoscenza incentivando i giovani a rimanere il più a lungo possibile nei sistemi di istruzione migliorando al massimo le proprie competenze.

Le politiche di istruzione e formazione rimangono la base per qualsiasi politica economica che possa essere in grado di portare ad una crescita e la lotta contro la disoccupazione deve essere necessariamente legata ad un miglioramento delle competenze della forza lavoro.

 

5. Riforma degli ammortizzatori sociali ed investimento in programmi di ricollocazione e riqualificazione dei lavoratori. L’Italia, infatti, spende troppo per pagare coloro che non lavorano e probabilmente non lavoreranno più e sarebbe, quindi, più efficiente un sistema finanziato da aziende e Stato che permetta di rendere i periodi di non lavoro più brevi e utili perché il lavoratore acquisisca conoscenze aggiuntive. Questo faciliterebbe la ricollocazione del lavoratore, diminuirebbe l’utilizzo nel tempo della cassa integrazione e dei sussidi, e permetterebbe alle imprese di avere una manodopera più qualificata. Il legame con le politiche attive è, dunque, vincolante.

 

Infine, occorre evidenziare come l’inadeguatezza delle misure adottate fino ad ora sia ormai palese ed evidentemente obblighi il Governo attuale a prenderne nettamente le distanze. Infatti (come osservato nel rapporto sul mondo del lavoro intitolato Better jobs for a better economy pubblicato dalla OIL nel 2012) i paesi Europei, per far fronte alla crisi, hanno flessibilizzato la normativa lavoristica ed indebolito le tutele con la speranza in una reazione positiva dei mercati finanziari. Siccome, però, queste aspettative non sono state soddisfatte, i paesi che più hanno applicato politiche di austerità e liberalizzazione, in particolare quelli del sud europeo, hanno visto peggiorare la decrescita economica ed aumentare la disoccupazione. La realtà, secondo la OIL, è che le politiche di austerità hanno prodotto una crescita economica molto debole diminuendo gli investimenti e comportando maggiore perdita di posti di lavoro, senza, tra l’altro, significative diminuzioni del deficit. Politiche che in periodi di crisi diminuiscono la rigidità in uscita del mercato del lavoro avranno come conseguenza facili licenziamenti e nessuna creazione di posti di lavoro. La riuscita delle riforme lavoristiche finalizzate all’aumento dell’occupazione dipende, in realtà, dalla situazione economica. Per uscire dalla «trappola dell’austerità» è necessario aumentare i salari minimi per agganciarli alla crescita della produttività; centrale, inoltre, deve essere il rafforzamento ed il rispetto delle tutele minime e fondamentali dei diritti dei lavoratori. Dunque, le politiche del nostro Paese si sono basate sull’idea che la crescita fosse il risultato dell’austerità e la creazione di nuovi posti di lavoro di qualità fosse poi una conseguenza.

Dati i risultati di queste politiche negli ultimi anni appare evidente che il ragionamento non possa più essere ritenuto corretto e che, quindi, è giunto il momento di modificare le priorità pensando al lavoro dignitoso ed ai giovani come una via per uscire dalla crisi.

Molto altro si potrebbe dire, la soluzione non è sicuramente semplice ed immediata, ma se il Governo vuole dimostrare di intraprendere la giusta strada deve almeno considerare tutti questi presupposti ed avviare un percorso di riforma che sia davvero rivolto ai giovani, alla conoscenza, alla crescita ed all’innovazione. Proseguire con piccoli ritocchi delle normative esistenti, diminuendo costi del lavoro e garanzie, senza assumersi la responsabilità di cambiare finalmente e decisamente rotta non sarebbe altro che l’ennesima dimostrazione della incapacità o mancata volontà della politica di occuparsi di noi, di noi giovani e del nostro futuro. A testimoniare l’evidente inadeguatezza della normativa giuslavorista, il neo segretario del PD Renzi, ha subito sollevato la necessità di riscrivere lo Statuto dei lavoratori, richiamando proprio la proposta di contratto unico e l’impegno a diminuire il numero di contratti atipici per combattere la precarietà e la disoccupazione, anche con una revisione dei sistemi di formazione e ricollocamento, gli ammortizzatori sociali e i costi del lavoro.

Ancora non abbiamo un documento definitivo per poter valutare concretamente il c.d. Job Act, e troppo spesso le promesse di riforma sono rimaste solo promesse, però il coraggio di affermare fermamente la necessità di un reale cambio di rotta ci fa ben sperare.

Quindi, o il Governo getta la spugna ed ammette che ormai non c’è nulla da fare, o si rimbocca le maniche e comincia a vedere ciò che ha chiaramente sotto gli occhi. Non c’è più tempo per le scuse, non c’è più la pazienza per attendere, non ci sono più soldi da tagliare, ed a breve, non ci saranno neanche più i giovani preparati su cui contare. Fatti, non parole.

Marta Cupelli