Inchiesta: acqua, così la privatizzazione gonfia le nostre bollette

l’inchiesta de ‘La Repubblica’

Il risiko dell’oro blu si prepara a ridisegnare la mappa dell’acqua italiana. Nei prossimi 12 mesi – salvo stop dal referendum di giugno – un po’ di maxi utility italiane, i grandi costruttori di casa nostra e un’agguerrita pattuglia di colossi stranieri si affronteranno in una partita miliardaria: la riorganizzazione della rete idrica tricolore con un’apertura più decisa ai privati. I vincitori si spartiranno un Bingo da sogno: il ricco (e anticiclico) mercato delle bollette – già cresciute del 65% dal 2002 a fine 2010 – e la gestione dei 64 miliardi di euro di investimenti necessari per rimettere in sesto i 300mila chilometri di tubi che trasportano il prezioso liquido dalle sorgenti fino ai rubinetti di casa nostra. Un colabrodo “non degno di un paese avanzato” – come dice tranchant il Censis – che perde per strada 47 litri ogni 100 immessi in rete, con un danno di 2,5 miliardi l’anno.

La strada a livello legislativo è già tracciata: entro dicembre – dice il decreto Ronchi – gli enti locali dovranno aprire definitivamente ai privati questo mercato. Mantenendo la proprietà dell’acqua ma affidandone a terzi la gestione industriale. C’è solo un ultimo (fondamentale) ostacolo per questa rivoluzione che rischia di avere conseguenze importanti anche per il portafoglio dei consumatori: il referendum di giugno che chiede l’abrogazione del provvedimento, lasciando il servizio idrico nazionale in mano allo Stato. Ma quanta acqua potabile abbiamo in Italia e perché la nostra rete è

in condizioni così disastrose? Chi saranno i protagonisti di questa corsa all’oro blu? Ed è vero che con lo sbarco dei privati nei rubinetti di casa pagheremo bollette molto più alte?

Un tesoro dal cielo
Giove pluvio ha avuto un occhio di riguardo per il Belpaese. Sull’Italia, certifica Eurostat, cadono in media 296 miliardi di metri cubi l’anno di pioggia (per il 42% al nord) cifra che ci mette al sesto posto nel continente dietro Francia (485), Norvegia (470), Spagna (346) e vicini a Svezia (313) e Germania (307). Al netto dell’evaporazione e dei deflussi abbiamo accesso a 157 miliardi di metri cubi (3mila l’anno per abitante). Un capitale immenso che però – come spesso accade nel nostro paese – non riusciamo a far fruttare visto che in rete pompiamo “solo” 136 metri cubi a testa ogni dodici mesi. Dove si perde tutto questo ben di Dio che piove dal cielo? In buona parte nei fiumi e sottoterra. “L’Italia non ha gli invasi necessari per conservare questo tesoro per i periodi siccitosi”, ripete da anni l’Associazione nazionale bonifiche e irrigazioni (l’agricoltura consuma 20 miliardi di metri cubi l’anno contro i 16 dell’industria e i 5,2 per consumi domestici). I 337mila chilometri di acquedotti tricolori ci danno così accesso solo a un terzo di quanto è disponibile in pozzi e sorgenti. E quando bene siamo riusciti a imbrigliare l’acqua in un tubo, non riusciamo a trasportarla sana e salva a destinazione: di100 litri raccolti alla fonte, al rubinetto ne arrivano solo 53. A Bari, certifica l’Istat, bisogna mettere in rete 206 litri per riuscire a consegnarne 100. A Palermo 188, a Trieste 176. Milano (dove i smarriscono solo 11 litri ogni 100) e Venezia (9) sono mosche bianche in questa liquidissima galassia di sprechi che butta dalle sue falle – calcolano Civicum e Mediobanca – qualcosa come 2,5 miliardi di euro di oro blu ogni anno. In Germania, per dire, la dispersione è di sette litri su 100 (e lì è una cifra che fa scandalo) mentre la media europea è del 13%.

Il quadro di regole
Chi gestisce oggi la rete idrica nazionale? Cosa cambierà con il decreto Ronchi che – salvo successo del referendum – allargherà la presenza dei privati nel settore da fine 2011? Fino a pochi mesi fa il quadro di regole era quello disegnato dalla legge Galli a metà degli anni ’90. Un’Italia dell’acqua “federale” divisa in 92 Ambiti territoriali ottimali (Ato) pubblici – prima se ne occupavano 8.500 comuni – che dopo aver steso un programma di interventi necessari per migliorare la rete dovevano riaffidare il servizio. Una piccola rivoluzione accompagnata dal passaggio da un sistema tariffario rigido (regolato dal Cipe per tutto il paese) a una tariffa reale media in grado di coprire gli investimenti e un rendimento garantito al gestore (il 7%). Con un tetto di incremento annuo per i prezzi al consumo fissato comunque al 5%. La metamorfosi però va ancora a rilento. A 15 anni dalla riforma, dei 92 Ato – dice il Blue Book 2010 di Utilitatis – solo 72 hanno provveduto ad affidare il servizio. E l’acqua è ancora saldamente in mano pubblica. Ben 34 Ato hanno girato la gestione a realtà controllate al 100% da enti locali. In tredici casi è stata passata a società quotate ma a forte presenza pubblica come le multitutility e in altri dodici ad aziende miste pubblico-privato. Solo 6 Ato – di cui cinque in Sicilia – hanno consegnato le chiavi dei loro acquedotti (ma non la proprietà) interamente ai privati. Cosa cambierà a fine 2011? Il Decreto Ronchi farà decadere tutti gli affidamenti in house, quelli a società interne, a meno che non si apra il capitale per almeno il 40% a un socio privato. Le municipalizzate potranno invece conservare la gestione solo se la quota pubblica del loro capitale scenderà sotto il 40% a giugno 2013 e sotto il 30% a fine 2015.

I nuovi padroni dell’oro blu
Chi sono i protagonisti privati di questo risiko dell’oro blu? L’identikit dei concorrenti ai nastri di partenza è già abbastanza chiaro. Anche perché molti di loro hanno già messo uno zampino nel mercato idrico nazionale e si stanno organizzando da tempo per la grande partita della privatizzazione. A far gola non è soltanto il business dell’acqua in sé. Anzi: “Il tetto al 5% dell’incremento delle tariffe è un limite che spaventa molti potenziali investitori”, ammette Adolfo Spaziani, direttore di Federutility. Il boccone più grosso sono gli investimenti necessari per tappare le falle degli acquedotti nazionale: una torta gigantesca da 64,1 miliardi nell’arco dei prossimi 30 anni (compresi interventi su fogne e impianti di depurazione), stima il Blue Book 2011, che fa gola anche ai costruttori. Da dove arriveranno questi soldi? Per il 14%, stima il Censis, da aiuti pubblici a fondo perduto. Per il resto saranno finanziati con le bollette. L’aumento necessario tra il 2010 e il 2020 – calcola Utilitatis – sarebbe del 18%. Soldi. Tanti. Che hanno già attirato diversi pretendenti al business dell’acqua privata. La pattuglia tricolore vede in campo tre big e qualche comprimario. Acea, la municipalizzata romana nel cui capitale sta crescendo rapidamente il gruppo Caltagirone (attivo nelle costruzioni), ha già oggi 8 milioni di utenti in diversi Ato a cavallo tra Lazio, Toscana e Umbria. Non solo. La società capitolina non ha mai nascosto il suo interesse per l’Acquedotto Pugliese (che Nichi Vendola sta cercando di blindare in mano pubblica) e ha iniziato a muovere i suoi primi passi anche verso la Lombardia. L’astro emergente – pronto a sfidare Acea per la leadership tricolore – è la Iren, la utility nata dalla fusione delle municipalizzate di Genova, Torino, Parma, Piacenza e Reggio Emilia e partecipata da IntesaSanpaolo. Opera già in Emilia, Liguria, Piemonte, Sardegna e Sicilia. E ha stretto un’alleanza azionaria di ferro con F2I, il fondo per le infrastrutture di Vito Gamberale, pronto a una scommessa importante sul business dell’acqua. Alla finestra c’è anche la Hera, la utility bolognese, forte nella regione d’origine ma ai nastri di partenza – almeno in apparenza – con piani meno ambiziosi. Mentre A2a e Acegas si muovono per ora solo a livello locale. Chi sono i big stranieri pronti a scalare l’acqua tricolore? Due hanno già scoperto le carte: Suez, il colosso transalpino, in campo a fianco dell’Acea, con cui già lavora in Toscana e Umbria e il rivale francese Veolia, che distribuisce l’acqua nell’Ato di Latina, a Lucca, Pisa, Livorno e nel Levante ligure. Una sbirciatina al dossier Italia l’hanno data gli inglesi di Severn Trent (che ha già messo un piedino in Umbria) e gli spagnoli di Aqualia sbarcati da tempo a Caltanissetta.

Il rebus pubblico-privato
Meglio per l’utente un gestore pubblico o privato? La risposta naturalmente non è facile. E l’esperienza degli ultimi anni non aiuta certo a sciogliere il dubbio. Ci sono amministrazioni pubbliche più che efficienti ed economiche – Milano ad esempio spreca poca acqua e ha una delle tariffe più basse d’Europa – e altre con bilanci e acquedotti che fanno acqua in tutti i sensi. I privati hanno spesso prezzi più alti ma in media tendono a garantire più servizi e investimenti. Proviamo a far parlare i pochi dati disponibili. Primo fatto: in assenza di un’authority che regoli il settore nessuno, pubblico o privato, riesce a rispettare gli impegni. Gli investimenti previsti dagli Ato nei loro primi anni di vita sono stati realizzati solo al 56%, dice il Coviri, l’ente che vigila sul settore con pochissimi poteri. Le realtà a controllo pubblico sono riuscite a mandarne in porto molto meno del 50% (“anche perché lo stato taglia gli stanziamenti e loro non riescono a finanziarsi sul mercato o con nuove tasse”, sostiene Spaziani). Le Spa miste e le municipalizzate li hanno ridotti “solo” del 13% in base agli studi del Blue Book. “Però da quando nell’acqua operano i privati l’occupazione è scesa del 30% e i consumi sono aumentati della stessa misura”, sottolinea Marco Bersani del Forum movimenti per l’acqua pubblica. La legge Galli, per assurdo, ha ingessato il sistema. Fino al 1995, quando pagava tutto Pantalone (alias lo Stato), si spendevano 2 miliardi l’anno per la manutenzione di acquedotti, fogne e depuratori. Oggi siamo fermi a 700 milioni. Roma taglia e i privati, in assenza di meccanismi tariffari premianti, investono con il contagocce.

Il nodo delle tariffe
I privati fanno pagare di più l’acqua? Questo, naturalmente, è il dato che interessa di più l’utente finale che fino a quando vede l’acqua scorrere dal rubinetto di casa si preoccupa più del suo portafoglio che dei buchi della rete a monte. Anche qui – sul fronte della bolletta – i dati empirici sono per ora pochi. Certo gli affidamenti degli Ato ad aziende miste o private che hanno promesso più investimenti hanno comportato un balzo secco della bolletta. Nel 2002 ogni italiano pagava in media 182 euro l’anno per il servizio idrico. Oggi siamo a 301, il 65% in più. Gli abitanti di Toscana (462 euro di spesa l’anno), Umbria (412), Emilia (383) e Liguria (367) – le regioni dove il processo di privatizzazione è più avanti – sono quelli che scontano prezzi più elevato (i lombardi, per dire, spendono 104 euro). Dei 25 Ato con tariffe al top, 21 sono privati o in gestione mista. “Ma una spiegazione c’è – dice Spaziani – . Lì si investe di più mentre gli Ato a gestione pubblica privilegiano per ovvi motivi di consenso politico la tariffa bassa al servizio efficiente”. Ma non sempre è così: “Ad Agrigento c’è la bolletta più alta del paese e l’acqua arriva due volte la settimana e solo in due terzi della città – dice Bersani – . Salvo poi scoprire che il gestore privato Girgenti Acque ne vende un bel po’ a Coca Cola per fare una bevanda gassata”. A Latina – dove il Comune è affiancato da Veolia – i costi sono schizzati “tra il 300 e il 3000%” calcola Bersani e 700 famiglie si autoriducono ogni mese la bolletta pagando il giusto (dicono loro) al Comune.
A fine 2010 un metro cubo d’acqua costava 1,37 euro (con picchi di 2,28 per l’alta Toscana e di 0,66 a Milano). Nel 2020 saremo a quota 1,63, il 18% in più con punte di +75% per l’area di Lecco (che passa alla tariffa media) e del 67% nell’Ato Bacchiglione gestito da Aps-Acegas. “Ma attenzione – dice Giuseppe Roma della Fondazione Censis – restiamo comunque ben al di sotto di quanto si spende nel resto d’Europa”. Un berlinese paga per l’acqua quasi mille euro l’anno, a Bruxelles la bolletta è di 580, a Varsavia 545. A Barcellona, Oslo, Helsinki e San Francisco siamo al doppio dei 200 dollari della capitale italiana. “Purtroppo dobbiamo rassegnarci – spiega Roma – . Il dilemma pubblico-privato è un falso problema: il sistema fa acqua da tutte le parti. Due italiani su dieci non hanno il servizio di fogna, al sud quasi uno su due riceve acqua non depurata. Non importa chi gestirà la rete in futuro. Per far funzionare la rete dobbiamo alzare e non di poco il prezzo. Le tariffe oggi riflettono solo la ricerca di consenso politico”. Senz’acqua, in fondo, non si può stare. E – come ricorda Spaziani – per la bolletta idrica spendiamo oggi solo lo 0,8% delle uscite mensili contro il 2% per il telefono, il 5,3% in elettricità e riscaldamento, il 14,9% per i trasporti e lo 0,9% per le sigarette. Per non parlare, dulcis in fundo, del più assurdo dei paradossi: in Italia una famiglia di 4 persone spende in media 340 euro l’anno in acqua minerale. Trentanove in più di quanto stanzia (lamentandosi) per quella che arriva dal rubinetto.