Grazie per Sabir Maydan!

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Cari sostenitori,

grazie al vostro preziosissimo contributo, Sabir Maydan, il primo forum della cittadinanza mediterranea, potrà essere una realtà.

Sarebbe davvero bello potervi incontrare tutti di persona il 28 settembre a Messina ma sapendo che questo non sarà possibile, oltre a ringraziarvi e a mantenervi informati, vi assicuro che faremo del nostro meglio perché la fiducia che ci avete accordato sia ripagata con il lavoro, con la qualità e l’originalità delle idee che saranno condivise in quella giornata e con l’impegno a fare si che le azioni e gli obiettivi di Sabir Maydan abbiano un futuro prossimo.

Chiudo dedicando un particolare pensiero ad Alaa Abdel Fatah, il blogger e attivista politico egiziano che sta scontando 15 anni di carcere (http://bit.ly/1nNuKOk) e a cui, come sapete, Sabir Maydan è dedicato insieme a Padre Dall’Oglio.

Alaa ha iniziato il 16 di agosto lo sciopero della fame con una drammatica ed emozionante lettera pubblica (in allegato) dove, oltre a citare la sorella anch’essa incarcerata, ricorda il padre gravemente malato e la sofferenza per non potergli stare vicino. Il 27 di agosto, il padre di Alaa, Ahmed Seif al-Islam, è morto (http://bit.ly/YzwFR2) senza che suo figlio potesse rivederlo. Ahmed Seif era uno dei più importanti attivisti egiziani dei diritti umani e politici (http://bit.ly/1Bug6Ud).
Il nostro impegno si ispira a quello di persone come Alaa e suo padre.

Ancora Grazie e a presto.

 

Fabio Laurenzi

Presidente COSPE

 

 

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Alle ore 16 di oggi ho celebrato con i miei colleghi il mio ultimo

pasto in prigione.

Quando ho visto mio padre in lotta contro la morte, rinchiuso in un corpo che

non era più soggetto alla sua volontà, ho deciso di iniziare uno sciopero della

fame fino a quando non raggiungerò la mia libertà. Il benessere del mio corpo

non alcun valore finché rimane soggetto a un potere ingiusto, in una

reclusione a tempo indeterminato non sottoposta alla legge o a qualsiasi altro

concetto di giustizia.

Avevo avuto questo pensiero, ma poi l’ho messo in disparte. Non volevo

aggiungere un altro peso alla mia famiglia- tutti noi sappiamo che il Ministero

degli Interni non rende la vita facile a chi fa lo sciopero della fame. Ma adesso

mi sono reso conto che le difficoltà della mia famiglia aumentano di giorno in

giorno, da quando sono in prigione. Mia sorella più piccola, Sanaa, e i

manifestanti di Ettehadiya sono stati arrestati solo perché chiedevano la

libertà per le persone già incarcerate. Hanno messo mia sorella in prigione

perché chiedeva la mia libertà! E così gli sforzi della mia famiglia sono

frammentati tra due prigionieri, e il cuore di mio padre si consuma tra due

corti – mio padre, che aveva già rimandato più di una volta un intervento

chirurgico di cui aveva bisogno a causa di questo maledetto processo.

Mi hanno portato via mio figlio, Khaled, mentre ancora soffriva nel superare il

trauma del mio primo arresto. Poi c’è stata la brutale performance da parte

del Ministero degli Interni, presentata come gesto “umano”: farmi vistare mio

padre in terapia intensiva.

La polizia ha cercato di svuotare il reparto ospedaliero e il corridoio da

pazienti, dottori, famiglie e infermieri prima di consentire la mia visita. Hanno

fissato l’ora della visita, ce l’hanno resa nota e poi l’hanno cancellata.

Alla fine mi hanno trascinato fuori dalla mia cella con la stessa tenerezza

mostrata durante il mio arresto. Il generale della polizia ha il compito di

prendere tutte le decisioni per prevenire la mia fuga. Era convinto che fosse

tutto un trucco, che nessuno fosse malato e che stessimo cospirando per

privarlo delle sue ore di sonno. Sono arrivato all’ospedale incatenato al telaio

di ferro del veicolo della polizia, e una volta nel reparto hanno tirato fuori una

macchina fotografica e ci hanno filmato contro il nostro volere.

Tutto questo serve a provarmi che il mio essere paziente non aiuterà mia

madre, Laila, o mia sorella, Mona, o mia moglie, Manal. Che questo aspettare

non aiuta la mia famiglia ad uscire dalle difficoltà, ma anzi, la rende

prigioniera come me, tutti succubi dei dettami e degli umori di

un’organizzazione priva di umanità e incapace di provare compassione.

Ho già affrontato corti e prigioni prima, e ho dato loro il benvenuto. Li ho

pensati come un prezzo necessario e prevedibile per chi decide di opporsi, e

come un’opportunità di lottare per i principi e le garanzie di un processo equo.

Ogni udienza, rinnovo e processo è stata un’opportunità per esercitare

pressione contro una giustizia eccezionale, un’opportunità per dare sostegno a

questi giudici che crediamo siano giusti. Pensiamo che siano molti e che

abbiano bisogno del nostro sostegno. Ogni giorno in prigione c’era l’occasione

per ricordare alla società le molte persone imprigionate ingiustamente, per

esercitare pressione sui media e sui gruppi politici che devono lavorare per

mettere fine alla distruzione quotidiana dei nostri diritti.

Ma quando mi sono ritrovato di fronte al mio giudice civile, ho incontrato meno

giustizia che nei peggiori tribunali eccezionali. Procedure, leggi, norme sono messe da

parte, e anche se siamo riusciti a portare allo scoperto i dettagli di moti casi, nessun

giudice ha alzato la voce contro i processi svolti all’Accademia di Polizia di Tora.

Per quanto riguarda i politici, si limitano a implorare misericordia per noi, sulla base

della nostra storia rivoluzionaria, senza mai menzionare cosa stia succedendo alla

giustizia stessa. I miei giorni in prigione non ci stanno avvicinando verso uno Stato

che osserva le proprie leggi o a tribunali impegnati per la giustizia. La prigione non mi

dà niente, a parte l’odio.

Quando ha avuto inizio questo sanguinoso conflitto tra lo stato e gli Islamisti, ho

dichiarato più di una volta che fosse inderogabile non prendere parte. Quando il

potere conservatore, tradizionalmente responsabile della stabilità, ha forzato un

processo di polarizzazione e si è impegnato in un conflitto che non sembra avere fine,

se non con la sottomissione totale o l’annientamento di una parte o dell’altra, il ruolo

di coloro il cui cuore sta con la rivoluzione è quello di frenare la società e fermare il

conflitto. Ho detto più volte che dobbiamo stare contro le violazioni e i crimini di

entrambi le parti e stare dalla parte delle vittime, qualsiasi sia la loro identità. Ho

anche detto che dobbiamo uscire completamente dal conflitto non sollevando

richieste, se non entro i limiti del diritto alla vita e alla dignità del corpo e della libertà

di ogni individuo, e oggi le fondamenta della vita stessa sono sotto minaccia. Non

combatto da solo per salvare le fondamenta della vita. I miei compagni sono tanti,

anche se le loro voci sono cresciute lievemente rispetto al furioso rumore della

Ma i compagni a me più vicini nella battaglia al diritto alla vita, alla dignità del corpo e

alla libertà dell’individuo sono sempre stati la mia famiglia. Mona riunisce volontari per

fermare i tribunali eccezionali, mia madre è in contatto costante con le vittime di

tortura e dà protezione ai giovani dissidenti e a testimoni, difficili da screditare,

semplicemente stando con loro. Manal, insieme a me, lavora per riunire attivisti e

vittime con esperienza e capacità tecnologica necessaria per organizzare le campagne

e documentare le violazioni. Sanaa si occupa di dare sostegno e cure a coloro che

sono incarcerati ingiustamente, e mio padre, in tribunale, ha sempre difeso loro e noi.

Ha fatto perdere credibilità a tante leggi, dimostrando la loro incostituzionalità, e di

tanto in tanto è riuscito a far imprigionare un torturatore.

La mia prigionia ripetuta ha fatto da anello portante nella catena della lotta della mia

famiglia. Insieme, facevamo parte della battaglia delle migliaia di persone che non

hanno mai abbandonato la causa, e dei milioni che a volte insorgono. Oggi questa

catena si è rotta. Sanaa, che si prendeva cura di me, è in prigione e ha bisogno di

qualcuno che si prenda cura di lei. Manal, da sola, cerca di proteggere Khaled dalle

conseguenze emotive e pratiche della mia carcerazione. Mona e mia madre si sono

prese cura di mio padre incosciente che non può più difendermi.

Quindi, oggi sto chiedendo il vostro permesso per combattere – non solo per la mia

libertà, ma per quella del diritto alla vita della mia famiglia. Da oggi priverò il mio

corpo di cibo fino a che non riuscirò a stare al fianco di mio padre nella lotta contro il

suo stesso corpo, per la dignità del corpo che ha bisogno dell’abbraccio dei cari.

Vi chiedo di pregare. Vi chiedo la vostra solidarietà. Vi chiedo di continuare quello che

io non sono più in grado di fare: combattete, sognate, sperate.

18 Agosto 2014

 

Primo giorno di sciopero.