Diario Europeo #4

europa

 

A cura del Centro Studi di acmos.net

Negli ultimi anni lo stato di salute della Ue è decisamente peggiorato perché è stata investita da una serie di eventi che non è stata in grado di fronteggiare con risolutezza, determinando così anche una crisi di fiducia nei suoi confronti da parte dei cittadini europei: si pensi alla crisi finanziaria greca, alle crisi internazionali (dall’Ucraina al teatro mediorientale), alle stesse elezioni europee del 2014 che hanno visto una scarsa affluenza accompagnata da una decisa crescita dei partiti antieuropeisti;  infine allo straordinario afflusso di profughi degli ultimi mesi che ha evidenziato tutte le divisioni interne all’Unione.
In attesa di valutare gli esiti del Consiglio europeo di lunedì 7 marzo allargato alla Turchia, per vedere se è possibile un primo anche se certo non risolutivo accordo sulla questione dei profughi, vale la pena prendere in considerazione un libro che invece dà già per iniziata la disintegrazione dell’Unione europea.


Jan Zielonka
, docente all’Università di Oxford, ha pubblicato nel 2015 presso Laterza (ed. orig. 2014) uno studio dal significativo titolo “Disintegrazione”. La sua tesi è che la Ue, ormai incapace di affrontare i problemi economici e politici più spinosi, diventerà irrilevante. Secondo Zielonka la crisi che si è aperta nel 2008 negli Usa, quando è rimbalzata in Europa, è stata gestita in modo confuso ed inefficace (si pensi alla Grecia), mostrando una Ue “avara, rigida ed oppressiva”.

 

L’autore individua negli ultimi anni una crisi di “coesione” (tra Stati creditori e debitori ad esempio), di “immaginazione” (le proposte per reinventare l’Europa sono per lo più tecniche e molto timide), di “fiducia” (i cittadini hanno sempre meno fiducia nella classe politica, sia in quella di Bruxelles che in quella nazionale): è intorno a queste tre questioni che ruota la crisi e non tanto intorno all’euro, alla Grecia e al debito sovrano.

Contrariamente ad altre situazioni di crisi vissute in passato dalla Ue, da cui è sempre uscita rafforzata, oggi un lieto fine ha scarse possibilità di realizzarsi.

 

Il vero motore della disintegrazione, per lui, sono le promesse mancate della Ue. Essa avrebbe dovuto eliminare le asimmetrie di potere (non più Stati potenti che si impongono su quelli deboli): oggi la Germania, con un drappello di alleati, dirige l’Europa, utilizzando più le sanzioni che gli incentivi e gli aiuti. Avrebbe dovuto fare dell’Europa l’economia più competitiva del mondo: invece neanche i Paesi più solidi riescono a generare crescita e l’introduzione dell’euro ha esasperato le distanze tra i Paesi dell’Unione. Avrebbe dovuto stimolare la partecipazione dei cittadini alla costruzione delle istituzioni comunitarie ma invece ha puntato più sull’”efficienza” che sulla “democrazia”, cioè sui risultati economici e di altra natura che l’integrazione poteva offrire ai cittadini, ed ora che i risultati sono deludenti gli europei non hanno molti motivi per restare fedeli alla Ue.

Si presentano tre possibili scenari di disintegrazione: 1) i leaders d’Europa perdono il controllo dei processi finanziari e politici in atto (ad esempio a causa di crisi esogene: possibili difficoltà dell’economia cinese, tensioni politiche dall’ Ucraina al Medio Oriente); 2) le soluzioni adottate finiscono per peggiorare la situazione (ad esempio il fiscal compact impone agli Stati debitori politiche controproducenti) ; 3) si tira avanti alla meno peggio (invece di trovare soluzioni europee ai problemi nazionali si cercherà sempre più di risolvere i problemi per conto proprio).

 

Lo stato di incipiente disintegrazione potrebbe essere contrastato attraverso progetti politici volti alla “reintegrazione” dell’Europa.

Zielonka sostiene che gli Stati Uniti d’Europa non sono una soluzione praticabile perché completare la Ue significa trasferire sovranità dagli Stati membri a Bruxelles, ma i governanti nazionali sono poco inclini a cedere il loro potere perché non vogliono essere sconfitti ai voti in seno al Consiglio europeo su questioni cruciali: per questo nel processo di integrazione europea si sono fatti più progressi nell’adozione di norme comuni che nel conferimento di poteri al governo europeo centrale. Inoltre il trasferimento di sovranità avverrebbe al momento solo nell’eurozona, escludendo vari Stati membri della Ue: questo potrebbe provocare la disintegrazione piuttosto che l’integrazione.

Esclusi gli Stati Uniti d’Europa, l’altra soluzione per una maggiore integrazione potrebbe essere una Repubblica federale d’Europa con al centro Berlino invece di Bruxelles (Bundesrepublik Europa  qualcuno l’ha chiamata), ma la Germania si ostina a “punire” invece che ad “aiutare” i Paesi deboli, non comprendendo che la leadership implica sempre sacrifici e non solo privilegi: anche questa soluzione “imperiale” non è una prospettiva credibile.

 

E’ a questo punto che inizia la seconda parte del libro, ben esemplificata dal sottotitolo che segue il disperante titolo “Disintegrazione:Come salvare l’Europa dall’Unione europea”.
La tesi dello studioso oxionense è che l’Unione europea, con il suo principio di una unione “sempre più stretta”, non è l’unica forma possibile di integrazione europea.

La fine della Ue, secondo lui,  non avrà esiti apocalittici ma porterà ad un approccio più pragmatico e graduale all’integrazione. Se torneranno gli Stati nazionali assisteremo forse ad una vampata di recriminazioni ma non a politiche nazionalistiche ed aggressive: l’interdipendenza ha portato i governi a concepire il loro potere e la loro identità come subordinata all’appartenenza a una comunità più vasta. Chi pensa che la rinazionalizzazione dei poteri porterebbe gli Stati a essere forti rimarrebbe deluso: è stata la Comunità europea nel dopoguerra a rivestire un ruolo essenziale nella ricostruzione degli Stati e nel loro benessere.

 

La disintegrazione porterà piuttosto verso un assetto “neomedievale”. Mentre oggi l’Unione europea segue un modello imperniato sulla concentrazione del potere, sulla gerarchia, sulla sovranità, su un’identità ben definita, un modello “neomedievale” prevede, accanto agli Stati, una maggiore rilevanza di altre  entità politico-amministrative, dalle grandi città alle regioni ed anche alle ONG. Già oggi gli Stati non sono più gli unici erogatori di servizi sociali (si pensi ai fondi pensionistici privati nella previdenza o alle ONG nel campo della lotta alla povertà); anche come agenti di democrazia la tradizionale rappresentanza politica parlamentare è affiancata da forme di rappresentanza extrastatuale (gruppi di pressione, movimenti sociali ecc.); in campo amministrativo gli Stati hanno perso potere a causa dei processi di decentramento e devoluzione territoriale: sono nati “Stati ibridi”, in cui autorità centrali e locali condividono poteri non solo più amministrativi ma anche politici, frutto di contrattazioni.
Saranno soprattutto le grandi città, le cosiddette “città globali”, a colmare il vuoto politico-amministrativo lasciato dalla perdita di potere degli Stati nazionali, ma in generale si sta già andando verso un’Europa formata da un gran numero di reti e associazioni complesse, con un sistema di governance  policentrico (in questo senso l’autore parla di un assetto “neomedievale”). Se per i federalisti questo processo rappresenta la fine dell’integrazione europea, per Zielonka introduce una nuova modalità di integrazione, naturalmente molto diversa da quella perseguita fin qui dalla Ue.
Zielonka pensa ad un’integrazione condotta da una pluralità di attori e non solo dagli Stati, di tipo funzionale e non territoriale, policentrica e non gerarchica: il riferimento è ad una “polifonia” contrapposta alla “monodia” dell’attuale Ue. La governance non sarà affidata all’esecuzione automatica di ordini impartiti dal centro ma si baserà sulla contrattazione e sulla creazione di reti fra attori europei, nazionali e locali, pubblici e privati (ciascuna rete nascerà e si rafforzerà attorno ad una esigenza specifica: il trasporto pubblico, la difesa dell’ambiente, il diritto d’asilo, ecc.).

 

La Ue al momento assolve male le sue funzioni e “marcia sul posto” (cammina senza avanzare); ha perso il sostegno della maggioranza dei cittadini europei ma viene tenuta in vita perché è troppo grande per poter fallire e perchè si ha paura di un salto nel buio. Ma il tirare avanti alla meno peggio non affronta i problemi strutturali e con il passare del tempo la Ue diventerà impotente e inutile. Riformarla è stato arduo in un clima decisamente più adatto  dell’attuale e non si vede come possano migliorare le pessime condizioni odierne. La provocatoria proposta di Zielonka è di abbandonare il sogno federalista di un superstato europeo e promuovere una forma di integrazione, per lui già parzialmente in atto, più pragmatica.

 

In conclusione, si può dire che la diagnosi dei mali della Ue fatta da Zielonka è senz’altro condivisibile. Per chi però ha a cuore la “democrazia europea” riesce difficile pensare che la sua proposta non abbia un’eco tecnocratica e che le reti di cui parla, costituite da autorità politiche, organizzazioni non governative, aziende e altri soggetti privati, non presentino un pericolo di “deficit democratico” pari o superiore a quello di cui soffre l’attuale Ue.