Crisi, debito, banche. Il processo a spirale

Crisi. È una parola che in questi mesi sta superando per utilizzo anche le parolacce più classiche e gli intercalari. Per darle forma, come per tutte le cose che spaventano, le si è affiancato l’aggettivo “finanziaria”. È pacifico che la radice della crisi sia la finanza mondiale e i suoi attori protagonisti siano gli istituti di emissione, di credito, le casse di risparmio, insomma le banche, con la comprimarietà dei governi e la popolazione media in tribuna, a pagare il biglietto. Quest’ultima crisi in particolare ha origine con la deregolamentazione del sistema finanziario avviata dal governo Clinton nel ’99. Per ‘deregolamentazione’ si intende l’abbattimento di alcune leggi che prima disciplinavano il settore monetario. Tempo fa le banche erano suddivise in due grandi tipologie, speculative e commerciali. Quelle commerciali erano generalmente garantite dagli Stati e non potevano permettersi investimenti troppo rischiosi proprio perchè vincolate da norme. Le prime invece, attingendo a capitali privati, senza alcuna garanzia per l’investitore potevano dare enormi guadagni, come anche perdite irrevocabili. Dalla deregolamentazione gli istituti di credito hanno preteso i due aspetti più convenienti che il sistema diviso offriva: la copertura assicurativa sui rischi di investimento – totalmente a carico dei risparmiatori – e la possibilità di scommettere su qualsiasi investimento, anche con rischi altissimi, pur di ottenere guadagni proporzionati. Le banche possono tutto: investimento risparmi, speculazione, costruzione e vendita dei titoli di debito. Possono addirittura decidere se i titoli che producono loro, o altri, siano sicuri o meno. Per questo sono nate le famigerate agenzie di rating. Nascoste dietro il “segreto professionale”, queste agenzie valutano le azioni ( il 95% del mercato mondiale) e la loro sicurezza. In realtà non sono altro che emanazioni degli stessi istituti bancari, essendo partecipate dai maggiori fondi di investimento mondiali. Possono anche giudicare la sicurezza dei debiti statali ‘ipotizzando’ se lo stato in questione potrà far fronte al debito. Sono il faro degli investitori: se danno una buona valutazione di un titolo questo viene acquistato. Se la valutazione è negativa si scatena una vendita selvaggia. Quando declassano il debito di uno stato i possessori del debito vendono riducendone ulteriormente il valore. Lo stato in questione è obbligato quindi ad alzare i tassi di interesse pur di rendere il proprio debito di nuovo attraente agli appetiti degli investitori, finendo per indebitarsi maggiormente. Le agenzie di rating sono le stesse che hanno dato una tripla A – valutazione di massima affidabilità – ai titoli tossici che hanno causato il crollo bancario americano del 2008. Ma cos’è il debito e cosa c’entrano le banche? Il debito pubblico di uno stato è la differenza tra le entrate e le uscite che lo stato stesso ogni anno produce. Ipotizziamo che ogni anno l’Italia produca 150 e spenda 200. I 50 di differenza sono il debito. Il debito viene venduto a risparmiatori o investitori con degli interessi, ossia, per fare cassa e rispondere delle spese l’Italia vende quel 50 promettendo, con tempi prestabiliti, degli interessi agli acquirenti. Chiunque può comprare i titoli del debito di uno stato, anche un altro stato. Le 20 maggiori banche europee sono esposte complessivamente verso titoli di stato (debito) dei Paesi Piigs (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna) per oltre 340 miliardi di euro: più della metà (186 mld) sono titoli italiani. Banche francesi e tedesche sono esposte per poco più di 10 miliardi verso la Grecia. I francesi risultano anche tra i principali possessori di titoli di stato italiani (36,3 mld). È possibile lucrare sul debito di un paese, basta giocare al ribasso. La Deutsche bank, nel luglio scorso, ha venduto, senza un’apparente ragione, titoli di debito italiano, che deteneva in quantità. Gli altri possessori del debito avevano due opzioni: vendere anch’essi (con un minor margine di guadagno) o pretendere dall’Italia un aumento del valore dei titoli, in interessi o assicurazioni sui titoli stessi (dette ‘derivati’). L’Italia, che ha bisogno di liquidità e di investitori, ha acconsentito alle richieste. In compenso la Deutche bank con la liquidità della vendita ha acquistato i prodotti derivati che assicurano il rischio di default italiano, rischio che Deutsche bank stessa ha contribuito ad aumentare vendendo i titoli del debito. In questi giorni il fenomeno continua. Da Wall street Italia dell’8 novembre: “BNP Paribas SA e Commerzbank AG, come tanti altri grandi istituti, starebbero vendendo bond anche a costo di registrare delle perdite, non facendo altro che esacerbare la crisi dell’area. Bnp Paribas, la più grande banca francese, avrebbe registrato perdite per 812 milioni negli ultimi 4 mesi, proprio attraverso il processo di riduzione dell’esposizione al debito europeo. In perdita anche Commerzbank, dopo aver ridotto del 22% gli investimenti nei Piigs, a 13 miliardi. Gli istituti continuano a vendere non facendo altro che estendere la crisi, alzando in continuazione il costo del prestito pagato dai vari paesi. Un processo a spirale”. Insomma le banche hanno avviato un processo di svendita dei debiti nazionali europei con l’obiettivo di guadagnare giocando a ribasso. Senza i fondi che prima queste garantivano le imprese nazionali non hanno più accesso al credito, non assumono, non si sviluppano, gli stipendi non crescono, la disoccupazione aumenta e le tasse versate scendono. Alla fine dell’anno il debito sarà sicuramente aumentato e verrà considerato poco solvibile, sempre meno, fino a rischiare il default (bancarotta). Anche la Banca centrale europea (Bce) è impotente. Quello che si limita a fare è prestare soldi alle banche che a loro volta li prestano agli stati a tassi di molto superiori di quelli della Bce. Non può saltare il passaggio intermedio perché le politiche economiche della Bce – nata per essere autonoma rispetto al potere politico – vanno decise d’accordo con le altre banche dell’eurozona. Sempre per tutelare l’indipendenza della Bce nemmeno il Parlamento europeo può dettare la linea o imporre una svolta. La Grecia, come l’Italia, è schiacciata dal debito pubblico (sono rispettivamente al primo e al secondo posto della classifica dei più alti debiti pubblici europei). Subito dopo vengono Portogallo, Spagna e Irlanda, ma anche la Francia non naviga in ottime acque. In realtà tutti gli stati europei, compresa la Germania, hanno impostato la politica economica nazionale, dal dopoguerra ad oggi, sul debito e sui suoi interessi per gli investitori. Tra la Grecia e l’Italia ci sono differenze notevoli, basti dire che l’Italia è la settima economia del mondo mentre la Grecia è solo la 27esima, secondo l’Fmi. Eppure sembra che le sorti dell’Europa debbano decidersi nel Bel Paese. Non tutto è relegabile ad un mero meccanismo economico-finanziaro. La politica c’entra, eccome. Al “dopo-Berlusconi” il compito di rispondere con atti tempestivi per evitare il baratro e agli “europei” quello di decidere se essere Unione o tornare a navigare da soli. Nella spirale.